Avevo letto recensioni terrificanti sui treni della Circumetnea e ora che poggio le mie grazie su uno dei loro sedili la domanda fa capolino fulminea: ma queste persone che fanno, viaggiano solo su Italo e Frecciarossa?
Non siamo di fronte all’eccellenza in fatto di modernità, inutile raccontare balle, ma dopo avere attraversato larghe fette di Thailandia e Vietnam su rotaie il treno che scivola lungo i contorni dell’Etna facendo tappa tra i vari paesini mi appare un gioiellino. Essenziale, magari non pulitissimo, ma dignitoso e dotato di quel tocco sferragliante che fa tanto vintage.
Salgo a Catania Borgo, capolinea e origine non solo della Circumetnea ma anche di quella che sulla carta ambisce a diventare la grande metropolitana della città. I lavori procedono a rilento, naturalmente, ma la Sicilia non c’entra: questa si chiama Italia.
Per poco più di 7 euro mi aggiudico un biglietto che mi porterà lungo le pendici provocanti del Grande Vulcano, quello che un giorno spero di conquistare (almeno parzialmente) in scalata, ma che per il momento mi accontenterò di sfiorare dal finestrino. Farò tappa al borgo medioevale di Randazzo per godermi il primo paese nero della mia vita, poi raggiungerò Giarre, dove baratterò questo curioso cimelio degli anni ’80 per un moderno, e certamente più asettico, rappresentante di Trenitalia.
Mi siedo in sala d’attesa raccolta tra me e me alla vista di uno dei miei incubi adulti: un’orda vociante di ragazzini in gita scolastica. Non li perdo di vista e quando arriva il treno osservo con l’occhio assottigliato di chi non può permettersi ingenuità il vagone dentro cui si catapultano come una mandria inferocita e mi dirigo nella direzione opposta. Scopro deliziata l’esistenza di una piccola cuccetta semilibera e mi accoccolo sul primo posto che scovo, pregustando la gita che mi attende.
Lo esterniamo in modo diverso, ma l’entuasiasmo che provo è più simile a quello di questi ragazzini col berretto in testa di quanto sia disposta ad ammettere.
Il primo tratto non è dei migliori. Attraversiamo la periferia di Catania con la lentezza sufficiente a non trascurare un solo dettaglio di degrado. La periferia delle città italiane è sempre terribile, ma qui il colpo d’occhio raccoglie i particolari decadenti di una città che ancora combatte con criminalità e zone non bonificate: palazzoni e capannoni alienanti, cadaveri di case, cumuli infiniti di spazzatura gettata agli angoli delle strade, panni appesi alla rinfusa nei balconi ingrigiti dall’incuria. Grazie a Dio ci sono i murales, assieme ai cespugli di fichi d’india le uniche note di colore di questo cimitero in bianco e nero.
Poi alcuni timidi segnali dicono che ci stiamo allontanando dall’ammasso urbano per addentrarci nella campagna, dove Lui, l’Essere fumoso e fagocitante, si fa più vicino e strizza l’occhio altezzoso.
Cominciano le prime sfumature di terra nera, poi di nuovo verde, il verde stopposo e arido di una terra che non vede acqua da mesi. Mentre osservo la cima del gigante avvolta in una spessa nuvoletta mi domando se solo io stia notando un improvviso incremento del fumo: mica deciderà di vomitare proprio durante il mio passaggio?! Mi volto verso gli altri passeggeri, ma gli sguardi indifferenti al finestrino e concentrati sul telefono o gli occhi dell’innamorato mi rassicurano: nemmeno oggi è il giorno preposto a dire addio al mio corpo di quarantenne.
Il treno si arrampica precario lungo traiettorie improbabili sfiorando case, cumuli di roccia lavica e minuscoli giardini da cui spuntano alberi punteggiati di mandarini e limoni. La Sicilia dei film. Questo bizzarro connubio cigolante tra treno e metrò a tratti si inabissa facendo tappa in fermate sotterranee.
Il rumore rimbalza tra le pareti del tunnel creando un frastuono assordante che tanto mi ricorda i miei amati treni thai. Quando il controllore mi si avvicina, continuo ad allungargli lo stesso biglietto obliterato e mi ci vogliono cinque minuti buoni per capire che in realtà vuole solo cambiare una carta da 20 euro.
Quando riesplodiamo in superficie, come fossimo anche noi un piccolo accumulo di magma, ci scopriamo molto più vicini al vulcano vero, quello innevato e borbottante, protesi su una valle che improvvisamente si allarga su scorci lunatici dal fascino arcaico. Ma questo è un paesaggio camaleontico, che fatica a mantenere gli stessi colori e simmetrie per più di una manciata di secondi: corre dal nero al verde, dai monoliti lavici alle distese infinite di alberi di pistacchio e ulivi, dalle superfici selvatiche e aspre alle distese di verde lussureggiante. Cercare di incasellarlo è un’impresa fallita in partenza, così come individuare la posizione dell’Etna, che prima ci accompagna a sinistra e poi svirgola improvvisamente dalla parte opposta.
Da Adrano a Bronte si svela il tratto più suggestivo e selvaggio del Parco nazionale dell’Etna. Dal finestrino entra aria frizzante, siamo a 800 metri sopra il livello del mare e cominciano ad acquisire più senso anche le venature bianche che tagliano le pendici del vulcano, le stesse che viste dalla spiaggia qualche giorno fa, tra fette di noce di cocco e lembi di pelle arrostite dal sole caldo di maggio, sembravano dettagli partoriti da un pennello surrealista.
Poi il controllore passa di vagone in vagone annunciando la tappa d’obbligo per tutti noi, ragazzini inebriati: Randazzo, il borgo nero.
É affascinante scoprire che, pur essendo il paese più vicino all’Etna, Randazzo non è mai stato toccato dalle eruzioni, che invece per sette volte hanno lambito e cambiato fisionomia a Catania, una sessantina di chilometri più giù.
Ho appena un’ora e mezzo prima del prossimo treno ma scoprirò che è un tempo più che sufficiente per perdermi tra i suoi vicoli, le costruzioni medioevali in pietra lavica, quelle piccole chicche che spuntano inaspettate agli angoli: la Basilica di Santa Maria, così juventina nel suo mix di bianco e nero, la deliziosa Via degli Archi, la storica pasticceria Santo Musumeci che sforna gelati dai nomi bizzarri nati dall’estro inventivo del proprietario. Il mio Pirandello, un riuscitissimo connubio di mandorla, limone e cioccolato fondente, vale da solo la visita a Randazzo.
Quando si deciderà l’Unesco a includere tra i Patrimoni dell’Umanità anche le prelibatezze culinarie?
Dopo una cipollata che nemmeno nei miei sogni, salgo sul treno che mi porterà a Giarre, ultima fermata del mio viaggio di circumnavigazione. Il treno, o per meglio dire l’unico vagone che lo costituisce, sembra uscito da un museo dei giocattoli tanto è carino.
Appagata da quanto visto fino a quel momento mi perdo a scrivere e quando rialzo la testa noto che il paesaggio è cambiato ancora una volta.
C’è il mare, laggiù, e la sua è una presenza che si sente, nell’aria salmastra e nel verde acceso delle terre attorno. Spuntano le viti, le palme, le felci.
Solo un elemento è rimasto inalterato ed è lì che si staglia netto all’orizzonte, esattamente come questa mattina.
’a Muntagna.