Bologna-Sydney. Come dire 20 ore di volo. Qualcosa come 17.000 chilometri sospesi per aria.
Come dire fare un buco sotto ai propri piedi e scavare scavare scavare fino a raggiungere l’altra parte del mondo forando la crosta terrestre.
Come poteva un viaggio cosí non essere un incubo?
Un’ora e mezza fino a Vienna, il tempo appena sufficiente per imbarcarsi su uno dei nuovissimi boing 777 della Austrian Airlines e poi un’unica tirata fino in Australia, intermezzata solo da uno scalo tecnico a Kuala Lumpur di una misera oretta, passata sotto le grinfie dei tesissimi e ombrosi controlli malaysiani.
La compagnia aerea è perfetta: le hostess premurose dispensano alcool come fosse acqua, il pilota scivola leggero sopra le nuvole in una quasi totale assenza di turbolenze, il monitor incapsulato in ogni sedile permette una vasta scelta di film nuovissimi e incomprensibili, telefilm, servizi informativi e videogame.
Ma la cosa migliore, come sempre, arriva da fuori: il finestrino rimanda uno spettacolo straordinario fatto di nuvole-lampi-di-luce-notte-buissima che lo stato semicomatoso dovuto alla mancanza di sonno rende quasi psicadelico.
Ma poi eccoli.
Immancabili.
Non so se capiti solo a me o se faccia parte del pacchetto all inclusive, ma volare mi scatena una serie di imbarazzanti e fastidiosi effetti collaterali, di cui naso chiuso e occhi lacrimosi sono i più blandi, aerofagia, pelle che si raggrinza come quella di un vecchio e inquietanti bolle rosse sparse ovunque decisamente i più inquietanti.
Poi se dio vuole la tortura, acuita dalla proiezione dell’ultimo Bridget Jones (emmeno male che è in inglese così mi e’ dato il lusso di perdermi parecchie battute), finisce.
Il saluto all’Australia è qullo di una donna sporca, in crisi d’astinenza da sonno e nicotina, dall’aspetto decisamente grottesco. Ma viva.
Ed eccitata come una bambina nel sentire i primi “You’re welcome!” “No worries!” con quel meraviglioso accento australiano che trasforma ogni frase in una domanda.
L’ho sognato talmente tanto questo momento che aspetto fatalista che qualcosa vada storto per via della legge di compensazione che sembra regolare ogni evento e il mondo intero in ogni sua cellula.
Per questo sono decisamente sorpresa di scoprire che il mio bagaglio non si è smaterializzato in mondi paralleli come credevo, ma compare tra gli altri, indenne, come niente fosse, infagottato nel suo cellophan rosa bello come il sole.
Dopo averlo liberato me lo isso faticosamente sulle spalle (e io con questo coso dovrei girarci l’Australia???), allungando il collo affinché almeno la testa riesca a primeggiare in altezza su quella del mostro, consentendomi cosi’ di conservare il minimo indispensabile di credibilità.
Fila tutto liscio persino al ceck-in dell’immigrazione: controllano che non abbia indesiderati germi attaccati alla suola delle scarpe, mi appiccicano il label del visto lavorativo sul passaporto e mi spediscono sorridenti tra le braccia cangurose di Oz sommergendomi di “Enjoy yourself!!”.
Non riesco a crederci: sono in Australiaaaaaaaaaa!!!!!!!!!!!!!!!!!!
E adesso che si fa? Ah sì, adesso nell’ordine devo assolutamente: correre in bagno; rassicurare i miei che l’aereo ha risputato il mio corpo non del tutto sano ma quantomeno integro; trovare lo shuttle bus che mi porterà nel cuore rosso e peccaminoso di Kings Cross.
E invece non faccio nulla di tutto questo. Perché c’è un’altra cosa da fare, adesso, molto più urgente, molto più impellente, e devo farla prima di tutto il resto, prima ancora di dare libero sfogo all’entusiasmo che mi sale lungo la gola.
La sogno da ore. La sogno da un’eternità.
Mi siedo sulla prima panchina che trovo libera e mi accendo la mia prima, agognata sigaretta in terra aussie.