Con un po’ di ritardo (il sud, il caldo e il cloro stuzzicano impietosamente il mio lato ozioso), ecco la seconda parte dell’articolo della scorsa settimana, Chiang Mai vs Chiang Mai: i motivi per odiarla, i motivi per amarla.

Chiang Mai, un monaco in meditazione.
I pro di Chiang Mai
1. È bellissima

Tha Phae Gate, la porta est di Chiang Mai.
2. È un paradiso per i nomadi digitali

Camp: l’ultima gioia dei nomadi digitali di Chiang Mai, nel centro commerciale Maya.
Quando mesi fa, durante il periodo preparatorio alla Grande Decisione, cominciai a scandagliare internet in cerca di possibili mete per nomadi digitali, mi accorsi che Chiang Mai saltava sempre fuori. Una fortuna sfacciata, la mia, perché avevo un debole per questa città già da diversi anni, dal 2008 per la precisione, quando l’avevo visitata la prima volta. Ora si svelava come la città più adatta per iniziare la mia nuova avventura. Ed è vero, Chiang Mai è un paradiso per chi lavora via internet. Ottima connessione, wi-fi gratuito ovunque. Ovunque significa ovunque: nei bar, nei ristoranti, dal dentista, nei templi. Se non siete sensibili alle distrazioni come lo sono io potete lavorare adagiati sul bordo di una piscina, seduti sulla panchina di un parco, mentre qualcuno vi rovista tra i denti. Sono moltissimi i nomadi digitali che convergono qui da tutte le parti del mondo attirati dalla facilità di connessione, ma anche dai costi di vita bassi, l’atmosfera rilassata, l’abbondante disponibilità di soluzioni abitative per tutte le esigenze e i flussi pressoché ininterrotti di interazioni umane e professionali.
3. È spirituale

Un monaco accende le candele attorno a un chedi per la festa di Makha Bucha.
Sebbene il confine tra sacro e profano sia alquanto labile anche da queste parti, il wat resta un luogo sacro dove si entra senza scarpe e con le spalle coperte, dove si omaggia il Buddha, si riceve la benedizione e ci si raccoglie in meditazione.
Il Buddha però non è solo una statua che ti osserva a occhi socchiusi, ma una filosofia di vita che valica i confini di calce e si proietta fuori: nelle strade, dove la mattina presto i monaci camminano scalzi a chiedere la questua, nelle casette degli spiriti (non sapete cosa sono? Leggete questo bell’articolo) presenti in ogni casa, albergo, ufficio e centro commerciale, nelle litanie che si spandono tra gli alberi e lungo le strade fregandosene dello smog, del traffico e del rumore. E se ti rechi al tempio poco dopo l’alba o poco prima che il sole si ritiri, in quegli spicchi di tempo in cui i turisti si sono già ritirati o non si sono ancora affacciati, l’atmosfera che ricevi in dono è quella che compete a ogni luogo spirituale, a ogni casa di Dio di questo mondo, fatta dei due più grandi segreti dell’esistenza: il silenzio e il ringraziamento.
4. C’è lo sticky rice

Sticky rice and mango: una delle specialià thailandesi.
Ero arrivata da pochi giorni a Chiang Mai, quando una mattina mi sono recata al tempio più antico della città, il Wat Chiang Man (la fantasia thailandese per coniare i nomi mi ha sempre affascinata). Mi ero da poco seduta silenziosa in una delle poltroncine di plastica davanti al buddha per guardare affascinata il via vai dei devoti con i loro cesti pieni di fiori, incensi e cibo per i monaci. E mentre attendevo che si desse il via ai mantra del mattino, la signora piccolina e senza età seduta vicino a me ha preso uno di questi fagottini da un sacchetto e me lo ha allungato. Io le ho sorriso estasiata, nessuno mi aveva mai allungato in un luogo sacro del cibo che non sapesse di pane azzimo. Così ho ringraziato e l’ho aperto, ci ho affondato dentro le dita imitando la mia benefattrice e ho colmato le papille gustative di quel succo zuccheroso e morbido, pensando che quella era l’accoglienza più dolce che potessero farmi.
5. È al centro di una zona antropologicamente molto interessante

Bambine di etnia Hmong.
Sebbene ogni gruppo abbia una sua precisa identità, con tradizioni, linguaggi, credenze e abiti peculiari, alcuni elementi creano un substrato comune, fatto di atteggiamenti tendenzialmente schivi, tecniche agricole di sussistenza, un passato come coltivatori di oppio e un presente di povertà, sfruttamento turistico, emarginazione e assenza dei diritti basilari, tra cui quelli di cittadinanza, sanità e istruzione. Queste etnie di origine semi-nomade provenienti principalmente da Myanmar e Cina costituiscono uno dei gioielli antropologici sparsi per il mondo e con questi spartiscono uno dei più grandi dilemmi in cui prima o poi si imbatte chiunque ami viaggiare: entrare in contatto con questi affascinanti testimoni viventi di società tradizionali, coscienti che il turismo porta qualche beneficio ma al contempo distrugge la tradizione, o lasciarli in pace, emarginati e tentennanti ma con il loro bagaglio culturale intatto.
anch'io voglio succhiarmi le dita dolcemente appiccicose davanti ad un buddha!
😀 devi !!