Il palazzone, sgraziato fuori e desolatamente vuoto all’interno, non rende affatto giustizia di quel che si nasconde all’interno: un piccolo scrigno protetto dove galleggia una musica rilassante e un odore denso, che sa di luoghi e saperi lontani.
Sediamo nella sala mignon in attesa del nostro turno. Mi accomodo contro lo schienale della poltrona cercando di rilassarmi, come se mostrarmi agitata non fosse ormai più un mio problema, quanto una scortesia che insinuo lì dentro, in un luogo che non lo merita.
I miei sogni di gloria però muoiono ancor prima di cominciare: spazzare via con la sola forza di volontà il terremoto degli ultimi giorni è come pulire con l’acqua fredda un tegame incrostato di sugo.
Mi arrendo a me stessa e allo schienale, invidiando profondamente l’amica che mi ha accompagnata e che, in fondo alla stanza, è già un trionfo di aghi e beatitudine.
È uno dei regali dell’età, la consapevolezza che non si esce dal dolore se prima non ci si immerge. La durata e l’intensità di questa immersione sono variabili, dipendono dalla persona, dal momento che sta vivendo, dal punto in cui si trova lungo la propria curva evolutiva.
Poi un bel giorno trilla la sveglia, una vocina emerge dal frastuono dei pensieri e dice: sei stata brava. Sei stata coraggiosa. Quasi un’eroina.
Mo’ però basta, esci da questo tugurio e torna alla vita.
Quando la dottoressa si para davanti a me e mi chiede come sto, apro di scatto la bocca per invocare scusanti, ma gli occhi che si spalancano su di me e le mie ferite sono due pozzi in cui annego in un nanosecondo.
Ma che bene, dottoressa, qui è tutto uno sfacelo, lo vede pure lei, no? Faccia del suo meglio e se proprio non riesce a ripigliarmi, mi getti pure nel cestino laggiù, che tanto non se ne accorge nessuno.
Poggia due dita fresche sui miei due polsi e poi sulla giugulare, “Sei un po’ agitata?” chiede a bruciapelo ma io non mi faccio cogliere impreparata: “Forse sì, sa, le mestruazioni…”.
Lei è una vera professionista, non ribatte e nemmeno scoppia a ridermi in faccia. Si limita a guardarmi con quei due pozzi chiari e questa calma profonda, spessa, antica, che per un momento mi risucchia fuori dalla stanza. La guardo e mi chiedo come sia possibile essere così solidi, così radicati, e allo stesso tempo così diluiti verso l’alto.
Mentre tento di risolvere l’arcano, lei si alza veloce, afferra un tubetto gonfio di aghi e con la precisione di un lanciatore di coltelli comincia a infilzarmi il palmo e le dita della mano destra. Poi passa alla sinistra, prima davanti, poi il dorso.
Un ago centra un punto quantico che in un istante si teletrasporta dal palmo della mano al cervello. Oddio, qui però fa davvero malissimo, mica sarà qualcosa di brutto?
Non faccio in tempo a sfogare la mia ipocondria che mi riscopro Edward mani di forbice, con l’aggravante, tutta koreana, di un ago conficcato anche sulla linea mediana della testa, a un centimetro esatto dalla linea dei capelli.
D’improvviso sono su una barca che sbanda pericolosamente. Lei coglie la vacuità nei miei occhi e corre subito ai ripari primi che le rovini sul pavimento: afferra un siringone, me lo posiziona tra labbro e naso e, senza alcun tentennamento, spara la cartuccia. Là dove fino a pochi secondi prima c’era solo una timida peluria, i miei occhi osservano increduli un ago grosso come un dito puntare dritto verso l’infinito.
Forse è la sorpresa, o forse ha davvero centrato il punto giusto della mia rete energetica, perché in un istante dal cielo ritorno alla terra, dalla trincea riesco all’aperto, dal muro ridiscendo al cuore.
Conto tre fremiti nel petto, sulle guance tre lacrime gonfie come le piogge d’ottobre.
Ehi tu, laggiù, con gli occhi chiusi, che fai finta di niente. Mi sa che avevi ragione.
“Quest’isola amplifica quello che sei. Se sei felice, sei al settimo cielo. Se sei sofferente, cadi giù. Se non sei né triste ne contento…”
“… rimani né triste né contento” concludo pragmatica.
“Proprio così!” ride lui, mentre mi mostra con mano distratta l’appartamento. “Questa è un’isola potente, va trattata con rispetto.”
E che, non lo so? Per quest’isola ho il rispetto che si riserva ai Vecchi Saggi, un misto tra deferenza e timore reverenziale. Non si scherza col fuoco, in forma combustiva o solida che sia.
“Ma se la tratti bene, e non contrasti la sua energia, lei ti cura. Ti cura il corpo e ti cura lo spirito.”
Sono nel seminterrato di una piccola palazzina a disquisire di energia e proprietà taumaturgiche con colui che dovrebbe, a tutti gli effetti, tentare di vendermi casa, ma ho smesso da un pezzo di stupirmi di queste strane sinergie.
L’Universo è un carro di Carnevale che butta a getto continuo palate di coriandoli. Dentro ogni coriandolo un dono, dentro ogni dono un messaggio e una lucciola di felicità.
Respiro lenta ed è come se colassi verso il pavimento. La testa è sgombra, così leggera che per un momento contemplo la possibilità che me l’abbiano sostituita; la colonna vertebrale, un tronco di quercia incurante della tempesta.
È un buio luminoso quello che osservano i miei occhi chiusi. Al centro, un puntino nero mi ricorda le proporzioni tra ciò che siamo e quel che ci hanno convinti di essere: un tutto che si crede un niente. Passiamo la vita a sentirci soli quando basterebbe lasciarsi andare per galleggiare nel Tutto.
Peccato che questo intenso momento mistico sia disturbato dal braccio destro, che è un’unica, diffusa carovana di dolore. Dottoressa, che fine hai fatto? Mi avevi detto mezzora, ma temo che tu ti sia scordata di me, questi aghi sono conficcati nella mia carne da almeno un paio di millenni.
Socchiudo gli occhi e vedo che la mia schiena pende da una parte, mi muovo contro lo schienale per ridefinire la simmetria. Richiudo gli occhi fiduciosa ma niente da fare, il dolore è ancora lì, vispo come non mai, il braccio andato, il braccio smarrito nell’Universo di quel che fu. A dirla tutta, mi sembra persino che rimandi uno strano odore… che sia cancrena?
Ah no, è Palo Santo.
Ogni minuto trascorso senza un picnic-tramonto in riva al mare è un minuto sprecato, penso mentre intingo la farinata nell’hummus. Ignoro le formiche che si avvicinano fameliche, tanto lo so che è una battaglia persa, e mi concentro sugli spruzzi del mare che a tratti lambiscono la terrazza di pietra, ricordandoci che qui è uno solo, quello che porta i pantaloni. Anche il mare, come l’isola, merita grande rispetto.
“Tu hai rimpianti?” chiedo stiracchiando le gambe.
“No” scuote la testa lei, con gli occhi fissi sulla montagna che cambia colore. “Ho deciso tanto tempo fa che non ne avrei avuti. E tu?”
“Uguale. Se non avessi fatto tutto quello che ho fatto e non ho fatto finora, adesso non sarei qui davanti al picnic più bello della mia vita.”
Ride, lei, ma io sono serissima. La vita è un incastro perfetto, una magia che si dipana. Gli errori, gli inciampi, i bivi sbagliati, persino i treni persi.
“Tutto è andato come doveva andare.”
“Anche la medusa che mi si è agganciata alla tetta questa mattina mentre facevo il bagno?”
“Anche lei.”
L’assistente purifica l’aria con il bastoncino acceso, poi ci sfilza dagli aghi come pezzetti di arrosticini.
La dottoressa osserva divertita i miei sbadigli, dice “Guarda qui come ci siamo rilassate”. E dire che un punto duole come se mi ci avessero conficcato dentro una wakizashi, anziché un ago sottile come un filo. È l’intestino, mi spiega, era tutto accartocciato, per forza avevi la testa così aggrovigliata.
Mi concedo di affondare ancora una volta dentro i due pozzi chiari e vado in cerca della fonte della Saggezza. Me li ruba però dopo pochi secondi per passare alla seconda parte del piano.
Prende da una scatola sul tavolo cinque minuscoli bruciatori, stacca la pellicola che c’è sotto e li appoggia lungo la linea mediana del mio palmo destro. Li accende con l’accendino e ci soffia sopra per ravvivare la brace. Mi dice di posizionare la mano sinistra sopra la destra, come una sorta di coperchio, per mantenere il calore, l’accordo è quello di fare un cenno un attimo prima di andare a fuoco.
Inalo a piene narici il fumo che esce copioso dalle moxa. L’odore è corposo, avvolgente, e per un momento mi libro leggera sulla stanza.
“È artemisia” dice lei. Lo sapevo che eri una curandera, l’ho capito non appena ti ho vista.
Artemisia. La pianta dell’oblio. L’erba che allontana gli spiriti maligni e alleggerisce il cuore dalla pena.
L’erba delle streghe.
Poi, dopo l’immersione, torni nel mondo. E d’improvviso ricordi.
Ricordi che questa mattina la tua padrona di casa ha bussato alla porta e ti ha allungato un casco di banane appena staccato dall’albero per te. Che quell’amico che non sentivi da decenni si è fatto vivo proprio ieri, annullando in un istante il lungo silenzio del tempo. Che la vecchietta scorbutica che porta in giro il cane buffo questa sera ti ha rivolto il primo sorriso stiracchiato di questi due mesi. E che laggiù, proprio in fondo alla via, appena fuori dall’uscio di casa, ogni mattina un sole rosso come un’arancia si prende la briga di alzarsi dal mare.
D’improvviso, ricordi. Che l’Universo è un carro di Carnevale che butta a getto continuo palate di coriandoli. Che dentro ogni coriandolo c’è un dono, dentro ogni dono una parola e una mano allungata.
Esco che sembrano passati millenni. Ho l’odore di chi si è fumato tre cannoni in sequenza, la mente che fluttua, il corpo più alto di 10 centimetri buoni.
Fuori gli alisei si sono addensati in nuvole basse e cariche di umidità, attorno non c’è nessuno, solo la cagnetta che ci attende fiduciosa dentro il furgone.
Quando saliamo è tutto un tripudio di gioia incontenibile, come se il solo averci lì avesse reso la sua vita uno spettacolo indicibile. Mi chiedo se qualcuno mi abbia mai guardata con quell’amore senza condizioni dipinto negli occhi. Mi chiedo se io abbia mai guardato qualcuno, con quell’amore senza condizioni dipinto negli occhi.
“Insomma, che si fa?” dice lei mettendo in moto.
“Non lo so, si va a riposare?”
Il silenzio di chi allunga la mano.
Poi i suoi occhi hanno un guizzo. “E se andassimo a vedere il panorama dal mirador?”
La mano che afferra.
“Certo che sì.”
Coriandoli.
Francesco
Che dire…un tripudio di emozioni
..di immagini….di domande che non ti eri posto… Cara Simona sei sublime e leggerti è come affondare non avere fiato e aver voglia di non respirare… pur di continuare
Bravissima
Ivan Busini
Bellissimo. Mi piace il tuo stile. Di grande ispirazione ed insegnamento per me, che vorrei già saper scrivere cosi’ bene.
Ti auguro tanti altri coriandoli.
Simona
Ti ringrazio davvero di cuore, Ivan