Io e i tour abbiamo un patto di odio reciproco che resiste indenne al passare delle stagioni. Violarlo è stato uno shock per entrambi.
Il tempo sarà anche illusorio ma trattasi di illusione di inestimabile valore e riporlo in mani altrui affinché venga compattato a proprio piacimento mi è sempre sembrato un irrispettoso affronto alla mia libertà. Come se non bastasse, questo tempo liofilizzato viene spalmato sugli itinerari più battuti, dove si affollano mareggiate di koreani che urlano anche quando sbadigliano e russi tatuati grondanti rolex che spintonano per passare avanti. No grazie, non fa per me.
Ma l’essere umano s’inganna quando pensa di avere una personalità scolpita nel marmo, perchè il suo involucro più profondo ha invece la consistenza del burro in una calda giornata di luglio, è un’entità duttile e impalpabile fatta di incoerenze e pulviscolo che corre nel vento.
Capita, così, che talvolta ci si ritrovi per ragioni irragionevoli calati in un mondo con cui mai avremmo pensato di poter scendere a patti. Capita che diamo vita a colpi di scena clamorosi che spiazzano prima di tutto noi stessi.
E capita che una mattina fuligginosa io mi scopra seduta sul sedile di un autobus vietnamita pronta per il primo tour della mia vita.
Dentro all’abitacolo c’è un abbozzo di aria condizionata, ma questo è l’unico dettaglio che in qualche modo rispecchia l’idea di tour organizzato che appartiene al mio carnet di clichè. Il resto – i finestrini polverosi, le tendine che trasudano batteri, il mio vicino di sedile, cui solo la temporanea incoscienza mattutina regala un’innocua apparenza – racconta tutta un’altra storia. Quella di un bus che tenta di farsi strada con rumori da cingolato tra il traffico serpeggiante delle strade di Saigon.
6 milioni di motorini non sono uno scherzo nemmeno per i parametri napoletani ma l’autista li approccia con la calma tipica del vietnamita, quella di chi ha visto talmente tanto nella vita da perdere ogni interesse per le futilità. Avanziamo pesanti e sobbalzanti tradendo una certa pendenza a sinistra, il colpo che ho avvertito sotto la natica qualche istante fa deve avere segnalato il momento in cui abbiamo abbandonato un copertone lungo la strada, ma nessuno nella parte anteriore del veicolo sembra curarsene, così non lo faccio nemmeno io.
La guida ci dà il buongiorno dietro a un paio di occhialoni scuri e un inglese veloce e tagliuzzato, so già che non capirò una parola, ma fa niente, mi trovo su questo autobus non per sentire vaneggiare un vietnamita delle solite sciocchezze, ma perché è il modo più comodo di vedere il Cao Dai Temple e i cuniculi di Cu Chi in un solo giorno.
E per scoprire cosa si prova a viaggiare su tre ruote.
La prima tappa arriva dopo un’oretta per espletare le basilari necessità: bagno e caffè.
Il posto prescelto è un capannone grigio e fumoso di una bruttezza quasi poetica che racchiude una ferita mai del tutto rimarginata, quella scolpita nei corpi deformi delle vittime degli agenti arancio (1), solo una delle tante vergogne nebulizzate nel Paese dai compilatori della dichiarazione universale dei diritti umani. I propri, naturalmente.
Guardo i volti seri e concentrati allineati lungo i banconi, chini laddove mani con tre dita hanno imparato a lavorare di fino gusci d’uovo per forgiare lineamenti orientali e paesaggi agresti. Fa sia male che bene vederli, si odorano lacrime nel capannone ma si respira anche speranza e quella tenacia spessa come una corazza che ho imparato a conoscere in questo mese in giro per il Vietnam. E mentre la mente si attarda a cercare di risolvere l’arcano di come possa l’essere umano risorgere in mezzo a un tale pantano di dolore, arriva la prima scoccata da tour: i minuti volano, lor signori, è tempo di andare, il tempo della compassione è terminato.
Risaliamo veloci e sudati sul nostro cingolato pronti per la nostra nuova mirabolante tappa: il Cao Dai Temple di Tay Ninh, simbolo vanaglorioso di quel bizzarro tentativo di intercettare Dio che è il caodaismo.
Ormai è risaputo che negli autobus dei tour organizzati spruzzano una sostanza soporifera per placare sul nascere ogni espressione di volontà individuale e scongiurare l’anarchia, e infatti sprofondiamo tutti in uno stato di inconsistenza che vaga al di là del finestrino inseguendo casermoni di forgia sovietica e stelle gialle su fondo rosso che sventolano pigre.
Per fortuna in Asia il divertimento è sempre dietro l’angolo e un lampeggiante della polizia ci distoglie all’improvviso dal nostro torpore di gente da tour facendo accostare l’autobus.
Il poliziotto entra sguinzagliando occhi indagatori, tenta di capire quanti sopravvissuti è plausibile aspettarsi in un mezzo che si regge sbilenco su tre ruote. L’autista sventola di rimando fogli rosa e blu scovati chissà dove, mostra permessi e allunga pacche sulla spalla dell’agente, ma tutto questo sembra non essere sufficiente perchè a un certo punto è costretto a scendere dal mezzo e a seguire I tutori della legge in un luogo appartato come si conviene alla situazione.
Mezz’ora di trattative spiate dallo specchietto retrovisore si risolvono nel colpo di scena più classico: l’autista si allontana velocemente dagli agenti, salta la carreggiata e si dà alla fuga contromano nella corsia opposta. Mi aspetto di vedere da un momento all’altro Bruce Willis fare capolino in canottiera dal portellone di un elicottero, ma quando questo non accade il mio occhio torna a fissarsi sull’orologio che impietoso batte il tempo verso mezzogiorno, l’ora in cui gli adepti caodaisti si riuniranno per la seconda preghiera del giorno rivolta verso l’occhio onniscente.
Quando ormai si è instillata nei partecipanti la convinzione di essere stati miseramente abbandonati al proprio precario destino, l’autista rispunta trafelato con in mano un sacchetto pieno di bottigliette di acqua e pacchetti di sigarette che allunga al poliziotto, saldando così, assieme a una manciata di denaro, la sua presunta violazione della legge.
Contento di avere adempiuto al suo dovere di cittadino, e rassicurato sul fatto che avvicendarsi per le strade di Saigon con l’ausilio di sole tre ruote è faccenda su cui si può elegantemente chiudere un occhio, l’autista riparte pigiando sul pedale per recuperare il tempo perduto.
Invano.
Cao Dai Temple
Arriviamo al tempio a preghiera iniziata assieme a frotte sterminate di altri poveri adepti.
Farsi largo non è facile, la gente si muove lenta nel tentativo di abituare l’occhio ai dettagli che spuntano copiosi da ogni centimetro di questo palazzo. La ricerca della trascendenza ha forgiato colonne rosa intarsiate di draghi che si perdono all’orizzonte e occhi esoterici lungo le inferriate delle finestre spalancati sul mondo fittizio per sorvegliare noi, povera gente di tour, e gli adepti, così tanti da sembrare elementi architettonici di un palazzo dentro un palazzo più grande.
Le donne siedono a sinistra, gli uomini a destra. Al centro, come un collante, i preti di questa strana commistione di fedi spiccano in vesti gialle, blu e rosse a testimoniare ruoli diversi e differenti confessioni di origine.
Io non so se sono proprio quella che si dice una persona normale, ma di fronte a queste file sconfinate di tuniche bianche che si prostrano a terra a ogni rintocco di campana sento Dio esattamente quanto tra i chiaroscuri di Caravaggio a San Luigi dei Francesi.
Questo luogo è un trionfo di colori, canti mantrici e silenzi poliglotti, poterlo gustare dal vivo dal mio angolino è un privilegio cui rendo omaggio immobile, timorosa che il più piccolo alito di vento possa turbare questa quiete da iniziati.
Esco con la sensazione di essere rimasta niente, eppure qualcuno dalla distanza mi fa cenno di affrettarmi. Mi viene subito l’ansia. Rubo qualche ultima istantanea a questa cattedrale in technicolor e mi precito sul cingolato sotto lo sguardo di disapprovazione degli altri passeggeri. Ma come fanno a essere tutti così freschi e così in orario, hanno sbirciato il tempio da dietro il tendino del bus? Io, al contrario, sono un fiume salato di sudore, nemmeno la trascendenza può nulla contro il caldo vaporoso di Tay Ninh, così chiudo gli occhi e tento di riassorbire le mie energie vitali.
Quando li riapro, il vicino tedesco solo apparentemente innocuo è lì che mi osserva impaziente di rendermi partecipe della novità.
Abbiamo raggiunto la nostra nuova tappa.
E lo abbiamo fatto con l’aiuto di sole tre ruote!
Cu Chi
Il ragazzo ceco la sera prima ci aveva messi in guardia: ci sono due Cu Chi, una per turisti e una vera. Pensava di demoralizzarci, ma come fare a spiegargli che è esattamente questo che voglio, un tour organizzato di quelli pacchiani dove si fa a gara per vedere il più possibile nel minor tempo possibile con i maggiori effetti speciali possibile? Mi aspetto fuochi d’artificio e assoli di zampogna dalla mia guida, altro che cuniculi veri.
L’inizio è blando, l’aria umida e claustrofobica della foresta in cui ci addentriamo invita a rallentare il passo.
Con l’energia di un malato terminale arriviamo alla prima attrazione: un carroarmato americano lustrato a nuova vita. Naturalmente è possibile arrampicarcisi sopra per il primo selfie della giornata. Una ragazza vietnamita lancia gridolini festosi, dice ma come faccio, oh ma si scivola, uh ma è così altoooo, e poi si fa immortalare a cavalcioni del mostro nero che qualche decennio fa si occupò di togliere l’anima a gente e campi coltivati, ma si vede che è un po’ delusa, ci deve essere qualcosa di meglio per aggiornare lo stato di facebook.
Lo trova alla seconda tappa, e qui sono tanti gli occhi che si fanno lustri dall’emozione. Un tombino. 10 centimetri quadrati dei 250 chilometri di cuniculi che vennero scavati dai vietnamiti sotto Cu Chi per trovare rifugio dai francesi e dalle bombe americane, un foro nel terreno con tanto di coperchio da rivestire di foglie in cui noi povera gente di tour possiamo calarci fingendo claustrofobia. La ragazza vietnamita ci mette 1 minuto a entrare e 10 a uscire, ma noi non abbiamo fretta, la fretta è per chi ha cose vere da vedere, i finti cuniculi di Cu Chi concedono invece tempo e cazzeggio a manciate.
La tappa successiva prevede lo sfoggio di alcune tra le più atroci e non convenzionali armi in bambù ideate dai vietcong per punire i violatori del territorio. La guida ce le mostra sorridendo e io mi domando quanto debba essere leggero l’animo di chi ha spartito con il proprio popolo decenni di dolore per poterne mostrare ora i ricordi come si farebbe con una giostra di un parco divertimenti.
Mi guardo attorno e mi sento malissimo, sono tutti entusiasti, parlottano gioiosi tra loro, si scambiano i cellulari per immortalarsi a vicenda di fronte agli aghi acuminati di una trappola a scatto, dicono mettiti un po’ più a destra così sembra che gli spuntoni ti penetrino direttamente nello stomaco. Gli unici che si aggirano con aria annoiata siamo io e il vicino tedesco, che c’abbiamo che non va?
Passiamo attraverso una specie di presepe animato dove manichini di soldati segano una bomba e approdiamo finalmente al poligono. Per una manciata di dong si può fingere di essere un vietcong che spara al nemico, il sogno di ogni bambino felice. La ragazza vietnamita non sta più nella pelle e si inabissa dietro al muro pronta a imbracciare il fucile.
A noi povera gente di tour insensibile all’arte della traforazione non resta che illanguidire nel negozio dove trovano sfoggio orpelli di rara bellezza. Ci sono spille con la bandiera vietcong e ciondoli fatti di proiettili che farebbero la felicità di parecchi giostrai della Segavecchia, anche se il mio preferito è il portachiavi lucido a forma di bomba. Ci aggiriamo fiacchi in un caldo che diventa più feroce man mano che il divertimento tocca nuove vette fino a giungere al vero gioiello di Cu Chi. I cuniculi.
Il ragazzo ceco ha detto una stupidaggine, non ci sono cuniculi veri e cuniculi finti. I cuniculi sono tutti veri, quello che è finto è il contorno da luna park e l’entrata protetta da tettoia, ma non è che puoi aspettarti di scendere nelle cavità della terra ricoperto di fango e zanzare, né recriminare se per farlo non devi schivare alcun fuoco nemico.
La guida ci invita a scendere, mostrandoci con la mano le uscite da cui possiamo aspettarci di rivedere la luce del sole. Chiedo “Lei non entra?”, lui sorride e scuote energicamente la testa: “Là sotto? No no, io vi aspetto in superficie”.
In molti si calano dentro e riemergono qualche istante dopo lamentando che manca l’aria e non si vede niente. Ma porca miseria, quindi niente multisala e nemmeno uno straccio di hammam là sotto? Che carina che è questa gente di tour.
Scuotendo la testa e ridacchiando tra me e me scendo i ripidi scalini con la baldanza tipica della donna sicura di sé. Ne conto circa 4 prima di vedere il tunnel restringersi come un imbuto e scomparire dietro a una pendenza di novanta gradi, non c’è aria nel cuore della terra, né luce nè vie di fuga, lo spazio è quello adatto a un topo, non a un essere umano, e la claustrofobia è una persona in carne e ossa che grida il mio nome. Penso che quello che si nasconde dietro a quella pendenza rimarrà uno dei tanti misteri irrisolti della mia confusa esistenza e con il cuore in gola ingrano la retromarcia e mi precipito fuori annaspando in cerca di ossigeno. Là fuori mi attende il sorriso comprensivo della guida e la gioia compulsiva della ragazza selfie, che giura che scendere là sotto è stata una delle esperienze più incredibiliiiii della sua vita, persino meglio che mitragliare fittizi americani.
Ormai sogno solo il mio letto, ma un’altra incombenza chiede di essere esaudita e stavolta non si può proprio soprassedere perché il video patriottico, più che un divertimento incluso nel prezzo del biglietto, è una necessità cui tutti i visitatori sono costretti a sottoporsi.
Sediamo facendoci aria con tutto ciò che ci capita sottomano, il caldo non molla la presa e nemmeno il parlottio della ragazza vietnamita che prende posto accanto a me. Sono talmente preparata a sorbirmi l’ennesima agonia che quasi non mi accorgo che quello che ho davanti è senza ombra di dubbio l’unico elemento autentico di questo lungo pomeriggio fasullo.
Le immagini partono traballanti e sgranate sotto la bandiera nazionale e il ritratto di Ho Chi Minh, il filmato è d’epoca e mostra in bianco e nero gli occhi seri e assottigliati di una ragazzina che imbraccia un fucile. È una guerrigliera, spiegano i sottotitoli, una delle tante vittime di questa guerra trasformate loro malgrado in difensori della propria terra e di se stesse, nessuna scelta, solo la risposta costretta e istintiva di chi per sfuggire alle angherie straniere dovette scavarsi una vita sottoterra. Ci sono ragazzine, donne, anziani, uomini soldato che strisciano in spazi angusti la cui assenza di ossigeno si percepisce fin qui, dove noi, povera gente di tour, sediamo muti e partecipi in un silenzio pesante come l’aria umida di Cu Chi.
Mentre i fotogrammi si rincorrono in una impietosa testimonianza di quello che fu, lo sguardo corre a sinistra, dove una cartina mostra l’ampiezza del reticolato di tunnel, e a destra, dove un plastico rivela la struttura di questi rifugi sotterranei, articolata su tre livelli e spartita tra ambienti dedicati alla cucina, al riposo, allo stoccaggio delle armi e alle vie di fuga.
Laddove io non sono riuscita a resistere che una manciata di secondi qualcuno ha saputo trascorrere mesi.
Le inestimabili risorse dell’essere umano.
Quando risalgo sull’autobus sono prosciugata nel corpo e nell’animo. Che giornata incredibilmente faticosa è stata. E mentre tento di incastrare in qualche modo questa mia prima esperienza di tour organizzato con lo stereotipo di gite domenicali la cui unica fatica è sollevare il sedere dal sedile assegnato per poi ridepositarvelo, la voce tagliuzzata della guida mi richiama al presente.
Ci ringrazia per l’impegno, l’attenzione, la passione che abbiamo mostrato. Noi, povera gente di tour. Poi racconta di sè.
Ha superato i 70 quest’uomo che sembra strappato da un film hollywoodiano, con quei tratti marcati, gli occhialoni scuri e il sorriso perenne. È nato a Cu Chi. È cresciuto a Cu Chi. E ci è vissuto a Cu Chi, sopra e sottoterra.
Per sei mesi ha vissuto dentro al ventre umido e soffocante di questa terra trasformata in un labirinto, tornando in superficie solo per mangiare e qualche volta riposarsi sotto la cura delle stelle.
15 anni dopo la fine della guerra è tornato là sotto per quella sorta di pellegrinaggio che spesso l’uomo è costretto a intraprendere laddove hanno avuto origine le sue ferite, ma è riuscito a restarci solo 5 minuti. Quel giorno ha giurato che quella sarebbe stata l’ultima volta, che in quei cunicoli ci stanno i topi, non gli esseri umani, e che la vita va vissuta in superficie, non dove muore la luce del sole e la sanità mentale.
Eppure essere rimasto sottoterra così a lungo gli ha dato un dono che ora stringe a sè come un segreto e che cerca di donare al mondo attraverso il suo lavoro: il sorriso. Vivere sottoterra, dice, gli ha donato la gioia di vivere e la consapevolezza di quanto prezioso sia questo dono che tanti sciupano per distrazione, malinconia o sete di vendetta.
“Non sono una guida, non sono nemmeno un insegnante. Sono solo un testimone di quello che è stato.”
Alla faccia del tour organizzato.
(1) Tra il 1961 e il 1971 furono riversati nel Vietnam del Sud qualcosa come 100 milioni di litri di agenti tossici, tra cui il famigerato agent orange, un potente diserbante contenente diossina. La diossina altera il dna causando cancro e malformazioni di vario tipo per generazioni. Tuttora, a 40 anni dalla fine della guerra del Vietnam, nascono persone che presentano segni visibili degli effetti della diossina.