La strada che imbocchiamo a piedi sembra il viale alberato di un qualche quartiere vittoriano. Gli alberi sono pini secolari divorati per metà da un parassita che ha succhiato dai rami la vita lasciando in cambio una lanuggine grigia e vaporosa di una certa suggestione. Pini metà vivi e metà morti, pini yin e yang.
Costeggiamo nude pareti di roccia rossa a cui si alternano prati ricoperti di campanelle viola, spruzzate gialle di fiori di tarassaco e buffe chiome di cipressi appiattite dal vento.
Che bella che sei, El Hierro.
Man mano che procediamo il paesaggio si allarga e la strada si restringe, ora è una lingua di terra battuta stretta e arzigogolata che segue lenta il declino della montagna anziché tagliarlo di lato. Non c’è una cartaccia lungo il sentiero, non ci sono ricordi di vita trapassata a miglior vita ai piedi degli alberi, i rami secchi troneggiano appesi ai tronchi e si disintegrano prima di toccare terra.
Allungo il collo e faccio le finte voltandomi di scatto per vedere se riesco a beccarli gli inservienti preposti alla cura di questo bosco incantato, nascosti da qualche parte dietro a qualche muretto dopo avere passato la giornata a rastrellare, lucidare, piantare, accostare tra loro in un puzzle vivente specie normalmente appartenenti a ecosistemi diversi. Ma qui ci siamo solo noi quattro.
Che pulita che sei, El Hierro.
Sono scorci di montagna quelli che ci accompagnano ai lati, l’aria è frizzante e trasparente, anch’essa lucidata di fresco. Il sole mi ha come sempre ingannato e ora si fa quattro risate a contemplare il mio giubbotto lasciato a poltrire sul sedile posteriore dell’auto.
Scruto il sottobosco e annuso l’aria in cerca dell’antico odore, l’istinto è quello di inoltrarmi dentro l’intrico di rami e scostare le foglie ai piedi dei tronchi per vedere che non ci sia qualche testa di porcino imprigionata là sotto. Ma anziché porcini tra i rami fa capolino il mare, anziché i falchi zampettano canarini e sfrecciano corvi.
Che strana che sei, El Hierro.
Poi, man mano che procediamo verso l’oceano, cominciano a mostrarsi.
I ginepri sabina ci accolgono qua e là nella distanza sputati contro l’orizzonte, verso cui si allungano come a volerlo raggiungere. Quasi tre mesi che siamo a El Hierro ed è la prima volta che mettiamo piede a El Sabinar. La ciliegina sulla torta la si tiene sempre per ultima.
L’impazienza di sostituire le cartoline viste finora con El Don Sabinar in persona è tanta che taglio un paio di curve passando attraverso i campi profondi, morbidi e semoventi. Sembra di farsi largo sull’impasto lievitato di un panettone, dove al posto dei canditi ci sono decine e decine di minuscoli grilli grigi che saltellano svelando striature rosse. Il sole è di nuovo potente, ora che dalla montagna procediamo verso il mare.
Poi l’ennesima curva ce lo svela improvviso, circondato da un cordone a proteggerlo da gentaglia come me che vorrebbe ignorare i confini e fiondarsi ad abbracciare questo cumulo straordinario di vita prostato a terra.
El Don Sabinar è rugoso come si addice a un vecchio saggio che ne ha viste di cotte e di crude.
Il tronco nodoso e ampio è diviso nella lunghezza e si trasforma in radici diffuse e saldate a terra. La chioma scura, fitta, intrecciata ai rami sottili come capelli ingruppati, cola a terra spandendosi ai lati.
Elevare un albero a monumento è un grandioso tocco di stile, ci vuole del talento a trasformare l’assenza di cattedrali gotiche e pavimentazioni romane in un dettaglio di trascurabile importanza.
Il “cipresso dei maghi”: ecco il nome volgare di questo ginepro, dai tempi in cui si ricavavano dalle sue fronde potenti amuleti contro i sortilegi.
Che mistica che sei, El Hierro.
Ma Don Sabinar è solo un esemplare particolarmente riuscito dei ginepri contorti di El Hierro, basta spostare lo sguardo per scoprire che è in degna compagnia. Una colonia di sabine modellate dal vento nel corso degli anni, inclinate, inginocchiate, inarcate a inseguire l’oceano e il vento che spazza furioso questo tratto di costa herreña.
Noi le si guarda quasi muti, con il rispetto che si dedicherebbe ai vecchi saggi del paese riuniti in circolo per sussurrare davanti a un falò i segreti più intimi dell’esistenza.
Tra essi, l’intuizione che nulla si ottiene opponendo resistenza. Che c’è chi resiste al vento e muore, e chi invece a questo si concede lasciandosi modellare.
Ma sarà possibile che su quest’isola non si possa fare nemmeno una passeggiata in pace senza dover pensare ai massimi sistemi?
Che palla che sei, El Hierro!