Arrivo al rifugio che è quasi sera. Il vento è quello dell’autunno, il caldo selvaggio della pianura romagnola è già un ricordo. C’è uno strano miscuglio di vibrazioni negative e positive ad accogliermi ma le prime per fortuna si dileguano ancor prima di attecchire, chi le porta se ne va lasciando spazio alle promesse di questa nuova avventura.
Siedo nel buio fitto della notte casentina di fronte a questo casolare di pietra che mi darà rifugio per sette giorni. Sette giorni di verde, ritmi lenti e riconciliazione. Segnali su bivi da sbrogliare.
Ascolto il silenzio delle stelle e il canto dei cervi in amore e penso che questa è la quarta volta che disfo il trolley nell’arco di un mese.
Da 18 mesi sono a tutti gli effetti una nomade e forse, forse, comincio a essere stanca.
È la vita che mi sono scelta e che amo, ma questa vita è una bilancia instabile dove un piatto pesa quasi sempre più dell’altro. Da una parte la libertà – ammaliatrice, inebriante – dall’altra una precarietà che talvolta toglie il fiato.
Eppure, di fronte a questa pace densa e paurosa come la notte, non posso fare a meno di pensare che se prima trascinavo le ore dietro una grande vetrata protesa sull’asfalto, ora le assaporo sotto una pioggia di stelle e una distesa di boschi. Che lo so già, mi rimetteranno al mondo.
E la bilancia torna nuovamente in equilibrio.
Sono al rifugio per uno scambio alloggio-lavoro, quel patto arcaico che bandisce il denaro e spalanca le porte al baratto. Lavorerò qualche ora al giorno in cambio di una stanza e tre pasti al giorno.
Mi bastano meno di ventiquattrore per capire che quello che ho fatto è un vero affare. Perché nel pacchetto dello scambio sono compresi anche un cane-tappeto, una gatta maculata e una manciata di viandanti che giungono al rifugio per assorbire l’energia delle foreste e lasciare in pegno racconti di vita e pensieri vergati sul grande libro dei ricordi.
Stefania è l’anima bella che gestisce Asqua da qualche mese, è socia come me della Banca del Tempo, un altro prodigio di questa opportunità chiamata “crisi”.
Non appena vidi, qualche mese fa, il suo annuncio sulla bacheca del gruppo, risposi immediatamente. Quelli erano i “miei” boschi. Lì avevo passato decine di estati durante la mia infanzia a rincorrere farfalle e scovare porcini nella terra umida, lì avevo deciso, due anni prima, di rimandare al mittente ciò che non mi rendeva felice e ritagliarmi le forme traballanti di una nuova vita. Era il posto perfetto per concedermi la mia periodica guarigione.
Ero reduce da un paio di mesi passati in Romagna, la terra che d’estate si apre come un fiore e riluccica tra aperitivi che sfiorano il mare, festival di musica popolare e calici di sangiovese alzati a celebrare la vita e l’amicizia. La terra dove sono i miei genitori, che da quando sono partita per il mondo centellino al mio ritorno come un liquore prezioso.
“Casa” è però un’essenza strana, che odora profondamente di amore e sicurezza, e di inganno allo stesso tempo. Trattiene nelle trame del tempo i fantasmi del passato e te li risputa addosso durante le lunghe notti afose, quando il corpo fatica ad abbandonarsi e la mente vigila come una faina.
Una mente equilibrata è a suo agio ovunque, me lo sento ripetere da sempre, ma talvolta i tempi sanno essere lunghi e faticosi e nell’attesa che la mia trovi la sua stabile forma di autoguarigione, l’unica cosa che può fare per quietarsi è strapparsi dalla zona di sicurezza e avventurarsi là dove spira il vento.
Così eccomi qui, dove avrei dovuto già essere da qualche settimana. Alcuni inciampi ci hanno messo lo zampino e rallentato i tempi, ma ormai lo so che gli ostacoli arrivano sempre esattamente quando devono, né un minuto prima né un minuto dopo. Senza quegli inciampi, forse sarei arrivata meno assetata di pace e natura e me ne sarebbe sfuggito l’enorme potere taumaturgico. E senza quegli inciampi, con molta probabilità ora non mi ritroverei seduta sul ciglio della montagna, protesa su un paesaggio che si confonde con l’orizzonte, a parlare con un wwoofer cinquantenne di paure, aspettative e attaccamento.
A discorrere, insomma, d’amore.
Marco ha 55 anni, un curriculum di prestigio alle spalle e un qualcosa di latente che lo ha spinto a prendersi un anno sabbatico, come un ragazzino dopo l’esame di maturità. E del ragazzino ha l’entusiasmo e l’incoscienza, i motori che lo hanno spinto ad accettare una proposta capitata “per caso” solo perché profuma di buono e di momento giusto. Si fa sfuggire tra le parole di essere un responsabile marketing, o qualcosa del genere, ma per me è solo un cuoco sopraffino e un comunicatore parco e profondo.
Ci metto un po’ di tempo a digerire l’accento milanese, ma poi mi faccio conquistare. Chi parla poco del passato è concentrato sul presente e per quanto mi riguarda non esiste miglior biglietto da visita.
Medito sul mio lettino a castello ogni mattina con le finestre socchiuse, così da lasciare entrare un po’ di ossigeno frizzante e qualche scorcio di quello che mi attende una volta fuori.
I primi compiti della giornata sono dare una grattatina alla pancia enorme di Annie e allestire il grande tavolo della colazione. Si mangia tutti insieme qui al rifugio ed è una di quelle piccole accortezze che trasformano un luogo di accoglienza in una casa.
Metto sulla tovaglia tre dispenser di zucchero ma scordo le tazze, riempio le ciotole di marmellata ma poi mi accorgo che manca il pane. Torno sui miei passi in continuazione per raccimolare il frutto delle mie dimenticanze, mi perdo nei dettagli, mi faccio sfuggire l’insieme. Sono distratta e confusionaria, ma alla fine la tavola trabocca di cibo disallineato ad arte e profumo di caffé.
Dopo avere lavato i piatti e rischiato di fare scoppiare la mia ernia latente nell’atto di issarli dentro la disinfettatrice, torno di sopra e mi dedico alle stanze. Ridono nuova vita ad Acero, Cerro e Castagno, svuoto cestini, sbatto cuscini e lucido pavimenti cercando di impedire a Luna di far coriandoli col sacco della spazzatura. Poi scendo in cucina.
Marco ha l’occhio concentrato dello chef e le mani di un artista. Affetta e grattugia, salta e arrostisce, abbina sapori e inventa consistenze, getta in aria spezie apparentemente a caso che colano sui piatti come colore su una tela dando vita a sfumature di aromi indimenticabili. Focalizzato com’è sul compito primario perde inevitabilmente di vista le futilità. Smarrisce presine, sottopentola, tegami e cucchiaio di legno e il prezioso mandato che mi si affida è quello di ritrovarli. Prima chiede consigli, che puntualmente disapprova, poi dice stai qui, fammi compagnia, e beviti un po’ questo sorso di vino.
Gli ci vogliono un paio di giorni per superare la diffidenza nei miei confronti e io a togliermi dalla testa lo stereotipo dell’imprenditore milanese anni ’80.
Il terzo giorno facciamo scorrere le parole.
Il quarto andiamo per boschi.
Il pomeriggio è il momento della cura. Il ginocchio fa i capricci come un ragazzino viziato ma io lo ignoro inoltrandomi tra i castagni e i cespugli di rosa canina, affronto i sali e scendi come un’esperta escursionista, scovo scorci di infinito, raggiungo croci sospese sulla foresta. Ci siamo solo io, il silenzio e il vento.
Si intravede in lontananza qualche casolare. Mi immagino la vita di questi novelli eremiti che li abitano, chissà se sono consapevoli della fortuna che hanno a potersi cibare di natura ogni santo giorno o se sono anche loro, come tutti noi, protesi su ciò che manca. Mi domando se conoscano anche loro giorni di incertezza così accecante da far sembrare ogni bivio un rompicapo irrisolvibile, ogni scelta un’opportunità persa. Mi chiedo quante volte questi boschi li abbiano quietati, o se col tempo finisca tutto per venire a noia, persino la pace.
Affido alle nuvole la mia preghiera silenziosa, chiedo segni in abbondanza, così che non sia tratta in inganno.
Poi finalmente allento la presa e respiro. Fermo il pensiero, spalanco le braccia, dico “Ehi, vita, eccomi qua, cos’hai in serbo per me?”
Quello che ha in serbo per me, naturalmente, non è una luce che cala dall’alto e mi illumina come una lampadina.
Macché. Quello che ha in serbo per me è un milanese.
Io e Marco ci inoltriamo nell’aria che profuma di resina e di autunno imminente. Esploriamo villaggi che spuntano dal folto degli alberi come funghi dopo un acquazzone, visitiamo musei grandi come francobolli, scattiamo foto alle comari dei paesini (che non brillano certo di iniziativa), strappiamo un invito al 60esimo anniversario di matrimonio di due bellissimi sposi che si terrà di lì a due anni. Niente male.
Mentre combattiamo con il fiato che fugge e un ginocchio che reclama pietà, ci rimbalziamo l’un l’altro sprazzi di vita che sembrano appartenere a secoli fa. Fingiamo di essere anam, esseri senza passato e senza nome, e per suggellare questo tacito patto spingiamo il pollice all’infuori e facciamo l’autostop, che il ginocchio è definitivamente andato.
Ogni giorno colleziono istanti di bellezza. Conto un cavallo che appare dal nulla all’ora di colazione come in un film di Fellini, un signore affascinante che punta il cellulare al cielo per raccontarmi la direzione delle stelle, un bambino distrutto dalla bronchite in compagnia di due genitori che odorano di tristezza ma che si tengono stretti nel loro disagio, come a dire che c’è sempre una speranza. Ci sono i cervi che bramiscono nella notte e un sentierino che mi conduce nel buio fittissimo dove posso respirare il silenzio fin quando ne ho voglia.
E c’è un piccolo nascondiglio senza pareti nascosto lassù da qualche parte, che visito ogni giorno come in un pellegrinaggio.
Raccolgo anche oggi la mia cartilagine fiacca e i miei scarponi impolverati e imbocco il sentiero che porta a Moggiona. Lo percorro lenta per tentare di trattenere ogni dettaglio di quella magia secolare, pur consapevole che non ce la farò mai – la mia memoria è da sempre una tinozza d’acqua che evapora al sole, di tutto questo non tratterrò che qualche frammento. Ma il beneficio arriva comunque, la calma penetra nelle ossa ad ogni passo e quando giungo al punto che cerco, là dove gli alberi seguono acrobati il pendio liberando l’orizzonte, sento che l’incertezza che mi accompagna da giorni e che mi ha condotta fin qui ha cominciato a sfumare i contorni senza che me ne accorgessi.
Il primo giorno ho rinunciato perché non ero riuscita a trovare un tratto di terreno che fosse sufficientemente piano, sufficientemente liscio, sufficientemente adatto. Che carina che sono, riesco a gettare aspettative persino sulle zolle di una collina.
Stavolta però mi sento rinunciataria, o forse solo fiduciosa, raggiungo il punto che mi interessa e mi siedo a terra. Non è in piano, e non è liscio, ma è così adatto, così squisitamente e commoventemente adatto, che sembra essere stato messo lì apposta.
Assumere la posizione burmese è impresa quanto mai ardua su quell’angolino precario ricavato tra gli alberi, ci sono spuntoni di quarzo che si intrufolano tra le pieghe dei pantaloni raggiungendo i miei ossicini e il ghiaino scivoloso dei calanchi che mi rende l’essere meditabondo più instabile della terra. Dio non se ne avrà male se gli renderò omaggio con le gambe abbracciate.
Respiro a fondo incapace di chiudere gli occhi, ci sono mille forme nelle nuvole e mille sfumature nel cielo che chiedono di essere contate. Apro ogni poro della pelle al vento che sale deciso dal burrone, spalanco i sensi e zittisco la mente, che tanto non ha nulla da fare adesso, se non contemplare e ascoltare.
C’è una voce che mi risuona nelle orecchie. Dice non far scegliere le tue paure. Dice rincorrile, le tue paure, buttati in mezzo a loro, che scappare lo hai già fatto abbastanza.
E capisco che ancora una volta non c’era nulla da capire, nessun bivio da sciogliere, nessuna decisione da prendere. Fare pulizia, ecco tutto quello che serviva, così da portare a galla quello che sapevo già.
E cioè che quella nave partirà alla volta del Brasile senza di me, che a me mi attendono altrove.