La notte a Kings Cross è poco piu’ di un orario sull’orologio al polso e una sfumatura di nero che tinge il cielo, lampeggianti delle police car che si fanno più frequenti, mille occhi rossi che si spalancano sui cartelloni giganti della coca cola e le insegne degli adult shops.
Il via vai per le strade è frenetico e incessante, esattamente come di giorno, fatto di corpi scoperti e in molti casi devastati, facce ammiccanti, slang multietnici e bottiglie di birra svuotate in fretta per avere il tempo di berne altre assieme ad amici appena conosciuti.
Il luogo della perdizione non è quello che ti raccontano nelle guide, quello da cui occorre tenersi lontani perché regno di criminalità e pericoli di qualsivoglia genere, distante anni luce dal chiasso perbenista e rincuorante del centro.
Kings Cross si mostra sfacciato nel suo bagaglio di insicurezza, nel suo disperato tentativo di tenersi aggrappato alla vita buttandocisi dolorosamente in mezzo.
Ma senza fare male, senza disturbare eccessivamente, e senza chiederti in cambio niente di più di quello che sei disposto a offrire.
E se decidi di non averne paura, se ci entri dentro dimenticando lo sguardo altezzoso dell’italiano non cresciuto che nulla sa del mondo e adotti quello dell’australiano – amichevole, agiudicante, abituato al mix di etnie e culture – allora scopri che Kings Cross non è affatto pericoloso, che anzi qui più che mai ti senti protetto, perché c’è l’umanità attorno a te e tu non ne sei che una piccolissima, e tuo malgrado irrilevante, particella.
Allora ti rilassi. Diventi backpacker e ti immergi nelle mille luci di Darlinghurst Rd e scopri che nessuno bada a te.
Se non lo vuoi, nessuno bada a te.
E allora lo senti, veloce e istintivo come un animale in cattività.
Il battito rosso e peccaminoso di Kings Cross.