Cammino sola da una decina di minuti dentro una tavolozza di colori. La passerella di legno taglia silenziosa un paesaggio infinito di terra recente e burrascosa, nera come solo la lava sa essere (1).
Passo tra cumuli friabili che a tratti si impennano verso il cielo a formare quelle buffe simmetrie che compongono il mio orizzonte da poco più di un mese. Il nero però è restio a restare nero, si tinge di rosso, arancione, giallo e bianco. Quando poi da dietro i pinnacoli spunta il mare perdo il conto dei colori, perché il mare qui ha sfumature che non conosco e che mi costringono a scomodare tinte inventate per l’occasione: azzurro-bianco, verde-blu, mare-arcobaleno-di-El-Hierro.
Mi apposto in uno dei belvedere che si aprono sul Golfo – è qui che l’isola si divise qualche milione di anni fa, qui che la terra collassò e si restituì all’oceano.
Mi siedo sulla panca, tolgo la pashmina, incrocio le gambe e attendo che il sole si crei un varco da dietro la montagna.
Ti sogno sole, ti sogno dal primo istante in cui ho aperto gli occhi questa mattina.
Mi sono alzata che era ancora buio, in quell’ora del mattino in cui il respiro respira leggero e il mondo dei sogni stinge lentamente in quello a occhi aperti. C’erano i grilli fuori, assieme a una vaga sfumatura rosa nelle nuvole e a una strana pesantezza nell’aria.
Quando ho capito che quella pesantezza era la mia, mi sono fiondata in cucina, ho divorato la mia gigantesca insalata di frutta, talmente affogata nei semi di Chia da essere marrone scuro e indubbiamente salutare. Ho infilato il costume, l’ho rivestito di felpa e pashmina e sono scesa alla stazione della guagua.
Destinazione Natura.
Destinazione Silenzio.
Quando all’orizzonte è comparsa la strada per La Maceta ho chiesto all’autista di accostare. Quanto mi piace quest’abitudine herreña di poter ignorare le fermate e scendere, previo cenno all’autista, laddove più mi aggrada: nella piazza di un pueblo, di fronte a una iglesia, nel bel mezzo del nulla. Perché quest’isola sa essere una vera condanna quando si tratta di bersi un caffé decente o andare a vedere Di Caprio farsi sbranare dagli orsi, ma bisogna di certo concederle che non lesina sul “nulla”. Di nulla, El Hierro, te ne concede a manciate.
Mi incammino lungo la strada vuota e assieme a lei mi intrufolo tra le piantagioni di ananas e banane, sfiorando le case basse e silenziose, i muretti di sassi neri che delimitano le proprietà da tempi primitivi, il chiacchiericcio dei canarini cariñi che saltellano tra i rami come stuntmen ventenni provvisti di ali.
Arrivo per prima alla staccionata che dà sulle piscine naturali, arrivo prima persino del sole, che al momento si concede appena accennato spandendosi fumoso lungo il fianco verticale della montagna.
Da giorni lamento isolamento, eppure questa totale assenza di esseri umani ora l’accolgo come un regalo. Sono qui per passeggiare, svuotare la mente, tentare di riacciuffare per il colletto un centro di gravità che si è reso latitante. Sono qui per stordirmi di natura e silenzio: voglio tornare a casa con il silenzio dentro le orecchie!(2)
Solo così, forse, ci capirò qualcosa.
Finalmente mi trova, il sole, e mi centra in pieno. Ti sei fatto desiderare, amico mio, ma sappi che hai già il mio perdono. Mi basta vedere come ti precipiti sul nero, come lo avvolgi, lo penetri e lo esalti; le lucertole ringraziano, l’oceano danza, la terra intera respira. E io? Beh, io (tanto per cambiare!) mi commuovo un po’.
Ma non è solo il tocco caldo del sole a fare sgorgare queste ingloriose lacrime pre-menopausa, e nemmeno il gabbiano che ha deciso di farsi equilibrista proprio sopra la mia testa.
È quel fiorellino viola laggiù. E quelle foglie di lattuga di mare che gli stanno a fianco. E pure quel tronchetto bianco che spunta poco distante tra le macchie arancioni. È vedere tutta questa vita che si fa largo nella roccia, non malgrado, ma grazie a essa, questa vita che affonda le radici in mezzo a ciò che a prima apparenza diresti sostanza dura, asciutta, fredda e che invece è energia che accoglie, nutre e incentiva nuovo soffio vitale.
Mi sa che la prenderò come una metafora.
(1). Rettifica: anche il carbone della calza della Befana!
(2). Libera citazione da Giuseppe Giacobazzi.