È una fortuna che anche i monaci rispettino la buona abitudine thai di darsi un soprannome, perchè non so come avrei fatto a ricordare quella sfilza interminabile di j, y e w, io che ormai non ricordo nemmeno il mio di nome. Pong, invece, “come ping pong ma senza ping”, precisa lui, si scolpisce subito nella memoria e in più si addice perfettamente a questo monaco che rimbalza tra occidente e oriente con la maestria di un campione di Wimbledon.
Ha studiato 10 anni in Belgio e in Francia Ping Pong senza Ping. Medicina, pensa un po’: un medico in veste arancione non lo avevo ancora conosciuto. E dopo avere assorbito il migliore nozionismo di stampo occidentale, un giorno ha capito che ancor prima del corpo è la mente che occorre curare, perché è da lì che parte e lì che risiede la vera sofferenza umana, quella che fa strage di innocenti, altro che ebola. Così eccolo tornato in patria, insegnante itinerante dedito a spargere il Dhamma come la Buona Novella e a suggerire quella che reputa la più potente cura esistente per gli affanni del fragile involucro umano: la meditazione.
Dopo avere parlato di Galileo, Darwin, Newton e Einstein, ora sviscera Freud e la psicologia. Sta cercando di farci capire il modo diverso in cui occidente e oriente studiano la mente. Entrambi scelgono come metodo l’osservazione, spiega, ma se nel primo l’uomo rivolge l’attenzione verso l’esterno e osserva la mente altrui (figure dello psicologo e dello psicanalista), nel secondo rivolge l’attenzione dentro di sè e osserva la sua, di mente. Una differenza che sembra un gioco di parole ma che è profonda come un abisso, capace di modellare una cultura e una sensibilità profondamente diverse da quelle che conosciamo e di scegliere di affidarsi a una condotta di vita anziché a una religione per spiegarsi il mondo.
Le schiene davanti a me cominciano a dare segni di insofferenza: la postura del loto, del mezzo loto e la posizione burmese vanno mantenute non solo per la meditazione ma anche per la lezione che precede o segue il momento contemplativo, per un tempo, cioè, decisamente superiore a quello che la maggior parte di noi anime fragili è solita concedere alla conoscenza di sé. La tecnica di cui il maestro si fa portavoce è quella della Via di Mezzo, che si rifà direttamente all’insegnamento del Buddha, il quale per divenire tale bandì gli estremi fino a quel momento sperimentati. Questo significa che muoversi, aggiustarsi, sciogliersi è concesso, perché se c’è tensione, continua a ripetere Pong, non può esserci alcuna meditazione. Ma è dura per noi occidentali associare alla meditazione concetti come comfort e relax. Per raggiungere la beatitudine bisogna soffrire le pene dell’inferno, purtroppo ce lo hanno instillato nel sangue fin dalla nascita e quando si riesce a capire il madornale errore di valutazione fatto è già una piccola illuminazione.
Pong rimbalza da una profondità all’altra dando vita a un curioso e originale tango tra raziocinio occidentale e saggezza orientale, mostrando come non vi sia contrasto ma solo armonia e arricchimento reciproco tra i due mondi, a patto di trovare la chiave giusta. E lui, questo moderno rappresentante dell’animo contemplativo che controlla l’ora sull’ipad e colleziona like sul suo profilo facebook, ne ha trovata una decisamente intelligente. Ha capito che se vuole renderci permeabili a concetti come intelligenza emotiva, impermanenza ed energia, concetti piuttosto evanescenti per una mente abituata ad analizzare e a chiedere prove tangibili per qualsiasi cosa, deve attingere ai simboli della nostra cultura.
Già i riferimenti all’amore per l’intuizione di Steve Jobs e al “Just do it!” della Nike suscitano la generale approvazione, ma l’oscar per l’abilità metaforica viene unanimemente aggiudicato quando per spiegare il potere della meditazione quale veicolo per ottenere forza ed energia tira fuori dal cilindro delle citazioni niente di meno che la cabina telefonica di Superman, dove Clark Kent entra uomo ed esce supererore.
Mi piace molto Ping Pong senza Ping, ha la profondità del maestro e l’entusiasmo del bambino, abbina a parole lanciate ad altezze vertiginose gesti goffi e scoordinati: mentre narra dei massimi sistemi si fa prendere talmente dalla foga che prima per poco non rovescia il bicchiere d’acqua che gli riposa a fianco e poi si dà una manata sul naso facendosi saltare via gli occhiali, che svaniscono nell’intrico al di là della palafitta. Pong rimbalza anche sulle parole, ci inciampa sopra come un ragazzino balbuziente, ma in realtà cerca solo il termine giusto per rendere al meglio la profondità del concetto che sta tentando di esprimere e quando finalmente lo trova si illumina come una lanterna cinese e annuisce soddisfatissimo, sorridendoci in un modo talmente coinvolgente che è impossibile non sorridergli di rimando, perché arriva direttamente al cuore che quest’uomo vive l’insegnamento come una missione, come il suo personale e appassionato dono a questo mondo dolorante.
Il giapponese davanti a me emette mugugni di approvazione sempre più frequenti che tradiscono una certa insofferenza, o almeno così voglio interpretarlo io per sentirmi meno sola nella mia impazienza. Starei ore ad ascoltare Pong palleggiare perle incommensurabili, ma poi realizzo che in effetti è proprio quello che sto facendo da tre giorni e la rigidità prima confinata al collo si è diramata alle spalle e ora sta scendendo pericolosamente verso i lombi. Allora decido che posso concedermi un po’ di distrazione.
Così sorpasso la veste arancione del maestro e quelle bianche dei miei compagni, sorpasso i cuscini, le stuoie e le candele che accenderemo non appena l’oscurità calerà e mi tuffo nell’ambiente circostante. Là fuori c’è una distesa di verde punteggiata di vita che vola, abbaia e striscia, un piccolo laghetto che riflette la sagoma delle palme e un venticello leggero che rinfresca la pelle e i pensieri.
In realtà, a ben guardare, questa meraviglia sembra tutto tranne che una distrazione. La natura, se osservata con la giusta attenzione, se respirata a pieni polmoni, è un Freccia Rossa lanciato verso le profondità dell’esistenza.
E quando anche Pong finalmente decide di tacere e ci invita a chiudere gli occhi per raggiungere “la parte più morbida” di noi, il centro del nostro corpo, il fulcro della nostra saggezza, mi circonda finalmente quella pace che sogno da sempre, e che assaggio da un po’, sebbene solo a tratti.
Il senso di inadeguatezza per non avere ancora imparato a trattenerla arriva veloce e spietato come sempre, ma ormai so cosa bisogna fare in questi casi.
Impermanenza. Basta richiamare questa parola per ricordarsi che tutto viene e va, non solo l’amore di de André, ma la felicità, la vita, il dolore, la voglia di cioccolata, la sofferenza di una perdita, il senso di colpa, l’orgoglio di un piccolo successo. Noi, tutti noi e tutto di noi. Perciò anche il senso di inadeguatezza.
E appena mi scopro nuovamente innocente, mi ricordo anche della frase che Pong va ripetendo da tre giorni e che insinua tra le frasi come un messaggio subliminale non appena se ne presenta l’occasione. Una delle tante chicche che questo monaco strappato alla medicina si lascia sfuggire quando meno te lo aspetti. Una di quelle concatenazioni di sillabe con cui bisognerebbe dipingere i muri di ogni città e attorno a cui bisognerebbe costruire inni, proverbi e ninne nanne, una di quelle frasi che quando le senti ti scivolano lungo la colonna vertebrale spargendo onde di vibrazioni dalle estremità fino al centro del corpo.
“Less is more.”
Meno è di più.
Un uomo che ha capito che meno si fa e più si ottiene, e che dedica la vita a spiegarlo alla gente. Ditemi voi se questa non è saggezza.