Sei uno a cui piacciono le emozioni forti. Ami quel pizzicorino che ti prende alla bocca dello stomaco quando stai per farne una delle tue, ami gustare la vita a fior di pelle. Fosse per te faresti bungee jumping sul Grand Canyon anche adesso, solcheresti l’etere agganciato a un paracadute grande come un francobollo, ti lanceresti lungo le rapide dello Zambesi chiedendoti se non sia il caso di gettare ai flutti turbinosi quel ridicolo giubbotto salvagente che toglie parecchio romanticismo al tuo concetto di avventura.
Sei il coraggio fatto persona, un cuor di leone come ce ne sono rimasti pochi, sei l’ultimo dei Mohicani.
Eppure pagherei oro per vedere la tua espressione mentre ti cimenti nella più adrenalinica delle esperienze che la Thailandia possa offrirti.
Un incontro ravvicinato con una tigre? Una notte abbandonato nel cuore della giungla? Una zipline che taglia foresta e burroni? Macché: un viaggio su minivan!
Per chi non lo conoscesse, il minivan è quella scatola di latta capace di saturarsi fino all’inverosimile per scarrozzare i turisti da un luogo turistico all’altro della Thailandia. È economico, ha l’aria condizionata, viene a prenderti a domicilio e ti porta a destinazione molto più velocemente di quanto farebbe un autobus locale.
Fantastico! direte voi. Può essere, per fortuna il mondo è sufficientemente ampio da consentire a ognuno di noi di amare le più diverse stramberie. Ma non per me, grazie: io, il minivan, lo odio dal più profondo del cuore.
Un viaggio su questa giostra da luna park è una roulette russa senza ausilio di pistola e ogni volta che ci salgo sopra dalla mia vita se ne parte un lustro. Ogni anno un consistente numero di minivan è coinvolto in incidenti mortali, a causa di conducenti che si mettono al volante ubriachi, o impasticcati, o ubriachi e impasticcati. E tutti, tutti, nessuno escluso, corrono come folli.
Ecco perché io i minivan, quando posso, li evito come la peste.
Quando posso, appunto.
Eccomi qui, infatti, per ragioni di visto, insaccata con altre 14 persone e i loro bagagli dentro lo spazio di un suv, destinazione Mae Hong Son. Il posto che ho scelto è come sempre il migliore: vicino al portellone e al finestrino, quello che mi regalerà la vista più grandiosa sul burrone.
La Pai che salutiamo di primo mattino è avvolta nella nebbia – ora che la stagione delle piogge è ufficialmente terminata l’escursione termica tra notte e giorno aumenta e la città si sveglia ogni mattina immersa nella foschia assumendo quell’aria un po’ misteriosa e illegale che mi piace tanto.
I primi chilometri come sempre sono un inganno, e dei più subdoli: quei furboni dei conducenti scivolano lenti e armoniosi lungo la strada dandoti l’illusione di trovarti sulla cima di quei bus turistici a due piani che ti portano alla scoperta delle bellezze di Londra.
Poi naturalmente arrivano i primi scossoni e le prime curve affrontate con la scioltezza di un rallysta ed è lì che la precarietà comincia ad addensarsi dentro l’abitacolo e che noi avventurieri ci guardiamo l’un l’altro sussurrandoci muti “È bello sapere che non si muore soli”.
Per fortuna il paesaggio risucchia l’attenzione di lato, sottraendola a tutte le follie che si materializzano davanti a me.
Ora che il sole comincia a bucare la foschia i colori fanno capolino uno a uno, andando pian piano a comporre il quadro impressionista che ci accompagnerà per tutti i 100 chilometri circa che separano Pai da Mae Hong Son: il verde gonfio di acqua degli alberi e dei campi, il marrone dei tetti di paglia e fibra di cocco delle capanne, il rosso della terra, così simile a quello della mia Australia, il giallo dei cartelli che segnalano curve a gomito, frane, pendenze terrificanti e inviti a rallentare se si vuole evitare di scoprire cosa si prova a volare giù da una scarpata.
Ogni tanto un’accelerata improvvisa mi costringe mio malgrado a fare rientrare nel mio campo visivo l’angolo guidatore. Ma perchè quella ragazzina non tace? Non gliel’ha spiegato nessuno che non si parla al conducente?? Che già è bravissimo a distrarsi da solo, peraltro, figuriamoci se qualcuno continua a cicalargli dentro l’orecchio.
Per fortuna tra lei e lui c’è a mo’ di cuscinetto anche un piccolo buddha rivolto verso la strada. Mi piace moltissimo vederlo lì, mi dà molta più sicurezza della mia cintura di sicurezza che si allenta a ogni scossone, ma temo che nemmeno lui sappia bene come reagire di fronte alla nuova bizzarria del guidatore: ma sul serio sta cercando di superare due furgoni di fila mentre dalla direzione opposta ne sopraggiunge un altro? Rabbrividisco notando che la strada è larga più o meno come la corsia di un’autostrada, ma si sa come si dice, occhio non vede cuore non duole e il mio evidentemente ha imparato da un pezzo l’arte della sopravvivenza, perché fugge di nuovo verso il finestrino laterale lasciando l’anima di noi tutti al proprio destino.
Cercando di ignorare gli scatti e le inchiodate improvvisi, mi concentro sulla strada che si dipana verso il capoluogo di distretto. È bellissima: si arriccia e ridiscende in una sequenza ininterrotta di curve e scorci che tolgono il fiato, facendosi largo tra colline tondeggianti e frammenti di bosco, campi di granturco, fiori rosa rossi e bianchi, minuscoli nuclei abitati e fiumiciattoli gonfi delle recenti piogge. Una graziosa chiesa isolata e alcuni totem animisti indicano sentieri diversi per raggiungere l’eternità.
Questo continuo sali e scendi mette nei dubbi perfino il mio stomaco, di solito impermeabile al mal d’auto, e non sarebbe una sorpresa se nel giro di qualche momento qualcuno decidesse di rovesciare la sua colazione su uno dei sandali che mi sono sfilata per stare più comoda. Ma quando sei su un minivan i dislivelli li accogli come una benedizione, perché non appena il conducente intravede la parvenza di un rettilineo si fa un po’ troppo prendere la mano: chissà se glielo spiegano a scuola guida che il sorpasso è una possibilità, mica un obbligo!
La cosa più affascinante restano comunque le teste ciondolanti di chi riesce a dormire persino in queste condizioni. Che invidia, però, abbracciare il fatalismo con così tanta fiducia da non avere nemmeno un po’ di batticuore. Io il mio, al contrario, lo sento palpitare con sempre più convinzione, allora stringo un po’ più forte il sacchettino rosso che porto sempre con me. Dentro ci sono la medaglietta che mi diede mia nonna, un piccolo buddha inciso su pietra, un tao e tutti i sassolini portaforuna che mi sono stati donati o che nel tempo ho raccattato nei luoghi dove mi sono sentita protetta. Quando mi abbandonerai tu, sacchettino, io tornerò a essere frammento di questo mondo, ma evidentemente non è ancora arrivato il momento perché mi ritrovo di nuovo col peso concentrato sui piedi nella strada principale di Mae Hong Son.
Sono talmente euforica per la scoperta che pure stavolta mi verrà risparmiata la fatica di scegliere in quale forma reincarnarmi che quasi mi dimentico di un dettaglio. Terribile.
Che a un viaggio di andata fa seguito, solitamente, un viaggio di ritorno.