Ho Chi Minh, al secolo Nguyen Tat Thanh, proprio non ci sta a farsi ignorare. La sua faccia magra, intelligente e a suo modo affascinante mi compare davanti ogni volta che sfilo una banconota di dong dal portafogli.
Se devo essere sincera, fino a pochi giorni fa di questo piccolo grande rivoluzionario conoscevo a malapena il nome e il pizzetto bianco appuntito. Nemmeno gli occhi ricordavo, e dire che sono occhi difficili da dimenticare: occhi sereni, accoglienti, buoni. Occhi così poco comunisti.
E visto che io agli occhi delle persone credo ciecamente, qualche giorno fa ho deciso di scoprire chi c’era dietro.
Sento a pelle che lo Zio Ho, così lo chiamano con quel mix di rispetto e affetto i vietnamiti, merita un segno di stima preventivo e azzardo perciò l’inimmaginabile: mi affido a uno dei tanti motortaxi che si scavano un varco millimetrico nel traffico fantascientifico di Hanoi a furia di clacson e svirgolate e mi dirigo al Mausoleo.
Attorno al padre dell’indipendenza vietnamita si creò da subito un grande culto della personalità, che alla sua morte, avvenuta per arresto cardiaco nel 1969, parecchi anni prima quindi che gli americani si decidessero finalmente a togliere il disturbo, si radicalizzò ulteriormente, grazie anche al contributo della sorella Russia. È da lì che giunsero infatti gli specialisti della conservazione eterna per imbalsamare il corpo dell’eroe nazionale (1) sul modello di quanto sperimentato qualche decennio prima con le spoglie di Lenin. Nel Mausoleo, in quella stessa piazza dove nel 1945 Ho Chi Minh lesse la dichiarazione d’indipendenza del Vietnam del nord, giungono ogni anno migliaia di devoti per rendere omaggio a quello che il giudizio della storia onora non solo come un grande capo rivoluzionario, ma anche come un grande uomo.
Dentro all’edificio, mi ragguaglia la Lonely Planet, non sono ammessi abiti succinti, riprese video e scatti fotografici.
E a quanto pare nemmeno io.
Quando scopro che questo prodigio della scienza mi sarà precluso causa “lavori di ordinaria manutenzione” ci rimango malissimo, ci tenevo davvero a vedere “dal vivo” le spoglie di quest’uomo colto e generoso che dedicò gran parte della vita alla liberazione e all’unificazione del proprio Paese. A quanto sembra dalle indicazioni che riesco a strappare alla guardia vestita di bianco, che scinde il proprio tempo tra l’onorevole compito di sorvegliare il luogo di culto e quello più ingrato, e sicuramente più faticoso, di arginare le copiose domande di una folla sterminata di francesi, tutto quello che mi sarà concesso di vedere sarà la versione bronzea dello Zio Ho dentro il museo adiacente.
Che non è proprio la stessa cosa, ma tocca accontentarsi.
Per fortuna il detto “l’abito non fa il monaco” vale anche per i musei, perché questo austero edificio di chiara freddezza sovietica accoglie il cuore morbido e caldo di un sorprendente design vietnamita che, a parte qualche eclettico scivolone nel più classico stile asiatico, affronta la poliedrica figura del Presidente con poesia e creatività.
Nel racconto della sua vita si palesa forse l’unica autentica testimonianza di comunismo di un paese che appare infarcito di capitalismo fino al midollo.
Quest’uomo poliglotta, che studiò in Francia e viaggiò per il mondo, prima di partecipare alla fondazione del Partito Comunista Francese e di quello Indocinese, e prima, molto prima di dichiarare la nascita della Repubblica Democratica del Vietnam e divenirne Presidente, fu pasticciere, panettiere, cameriere, fotografo e giornalista.
Fu sempre un uomo del popolo, che visse in modo umile nel rigoroso rispetto della moralità e dei principi confuciani con cui lui stesso era stato cresciuto e che sempre appoggiò l’ala moderata del PCV, per quanto moderato possa essere, naturalmente, un organo rivoluzionario. Fu sempre con il popolo e per il popolo, e lo fu ancora di più quando da clandestino e carcerato si trasformò in capo militare per guidare quella Rivoluzione di Agosto che doveva restituire ai vietnamiti le redini del proprio paese strappandole a francesi e giapponesi, e anche anni dopo, quando condusse il Vietnam del Nord nella dolorosa e fratricida guerra di liberazione del Sud dallo scacco americano.
Aveva un sogno lo Zio Ho: riunificare e rendere indipendente un Paese che libero non lo era mai stato, passato per tutta la vita sotto il tritacarne di chi voleva dire per forza la sua in un luogo che non gli competeva. Un’interminabile, incredibile a vederla ora col senno del poi, scia di sangue iniziata con il feudalesimo cinese, proseguita con il colonialismo francese, il fascismo giapponese e “terminata” con l’imperialismo americano.
Sognava un Paese in grado di cavarsela con le proprie forze, di raggiungere, così scrive nel suo testamento, “lo sviluppo economico e culturale del popolo per migliorare la vita delle persone”.
Morì sei anni prima di vedere realizzato il suo sogno.
Perché malgrado le molte e profonde debolezze sul fronte della libertà di espressione e dei più elementari diritti umani, malgrado la presenza di un unico partito politico che non lascia spazio all’opposizione, malgrado i numerosi arresti di studenti, intellettuali e blogger colpevoli di criticare le carenze democratiche del Partito, malgrado insomma una voragine in quello che dovrebbe essere l’abc di uno stato democratico, il Vietnam oggi è un Paese unito, autonomo, in fortissima crescita economica, che ha raggiunto quasi il 100% di alfabetizzazione e standard di welfare e qualità della vita nettamente migliori di quelli di diversi cugini asiatici. Un paese guidato da un Partito comunista che tuttora “fermamente ritiene il marxismo-leninismo e il pensiero di Ho Chi Minh il fondamento ideologico e la stella polare della nostra attività rivoluzionaria” (2) ma che al contempo strizza l’occhio all’Occidente e al mercato capitalista senza imbarazzo, con buona pace del vecchio comunismo.
Ma una piccola rivincita lo Zio Ho se l’è presa, perché tra i maggiori investitori stranieri che hanno contribuito e contribuiscono tuttora alla clamorosa impennata dell’economia del Vietnam ci sono quegli stessi americani che sessant’anni fa calarono come neobarbari a istruire e armare le truppe del sud e insegnare loro come opporsi all’invasione comunista dei fratelli del nord. E che vent’anni dopo furono costretti a ritirarsi con la coda tra le gambe.
Ecco che cos’è quel guizzo che si intravede negli occhi buoni di Ho Chi Minh stampati su tutte le banconote nazionali.
Sì, ora che ci guardo bene sembra proprio il guizzo di chi se la ride sotto i baffi.
(1) contravvenendo in modo abbastanza sorprendente alle sue ultime volontà, che parlavano di cremazione.
(2) Da un discorso di Nguyen Phú Trong, segretario generale del PCV, tenuto a Cuba nel 2012.