Io non so esattamente che cos’è che hanno le isole, ma qualcosa di speciale di sicuro ce l’hanno.
Perché altrimenti diventa difficile spiegarsi come una persona timorata dell’acqua come la qui presente possa rinascere su una roccia ammollata in tonnellate di oceano, completamente disconnessa dal resto della terra emersa.
So però che cos’ha questa, di isola.
Le meteore.
Miyagi
Oggi, dice Miyagi, è il giorno in cui tutto ricomincia. E io, che quando mi si parla di nuovi inizi non capisco più nulla, decido che mi concederò di pendere dalle labbra di questo minuscolo signore thailandese almeno per qualche minuto ancora.
Comparso improvvisamente lungo la spiaggia questa mattina, Miyagi non solo parla di cose interessanti ma lo fa pure con una certa padronanza della lingua inglese sconosciuta a gran parte dei suoi connazionali.
Mentre tento di seguirlo nei suoi voli icariani di rara bellezza mi soffermo a guardarlo. Ha gli occhi buoni e una di quelle barbe grigie e vaporose che sono un po’ un salvacondotto. Il timore che alzi improvvisamente le braccia e mi apostrofi con un “Metti la cera, togli la cera” non mi impedisce di nutrirmi della calma che emana, che non riesce però a mettere a tacere del tutto quel tocco di follia bambina che gli fermenta sotto pelle.
Narra di bad energy contenuta nel latte condensato, di nuove ere a venire, di meditazione trascendentale e di come Tony Nader sia stato investito da Maharishi (1) del più alto e difficile compito che uomo possa ricevere: traghettare miliardi di pecorelle smarrite verso i lindi e ampi giardini della Realtà Ultima.
BC – come preferisce modestamente farsi chiamare il signor Miyagi – medita due volte al giorno, scrive libri e diffonde il verbo dei Maharaja in ogni lembo di spiaggia che si allarghi tanto da contenere una manciata di sedie e tavolini affacciati sull’Oceano Indiano.
Dalla tasca della borsa di tela che si porta appresso sfila un libretto azzurro e oro intarsiato di geroglifici thai che mal si accorda col pantaloncino verde fosforescente zuppo di sabbia che indossa, ma in fondo pure a Osho piacevano i contrasti.
Mentre filosofeggia assottigliando gli occhi alla luce forte di metà pomeriggio, assorbe bicchieroni di caffè come fossero tazze di latte di cocco, che poi sputa sulle radici di una pianta nel modo gutturale tipico di queste parti sentenziando che questo caffè “fa male”. Fargli notare che assumerne una quantità più modesta potrebbe essere un buon inizio verso la guarigione appare troppo scontato, così chiudo la bocca e spalanco gli occhi di fronte al libro che mi allunga e alla raffinatezza con cui è stato dato alle stampe.
Giustamente orgoglioso, ma quasi timoroso di darlo a vedere, prende posto vicino a me leggero come un pettirosso, sistema le gambe nella posizione del mezzo loto e con le mani stringe più forte l’improvvisato turbante che gli acconcia la testa in modo signorile, donandogli quel tocco di misticità anni ’80 che fa tanto Karate Kid.
Dice che sa di non essere un bravo scrittore, che gli ci vorrebbe un ghost writer: “Potresti farlo tu, io parlo e tu scrivi”.
Faccio notare che io scrivo in italiano e l’italiano in giro per il mondo è appena un pizzico più diffuso del catalano, ma dice “Non importa”, facendo un cenno con la mano che chiude la conversazione e scaccia al contempo almeno una decina di moscerini.
Lo cullo con lo sguardo il tempo sufficiente a considerare più che plausabile l’idea di affittare oggi stesso una casa qui sull’isola e recarmi da lui in bicicletta ogni mattina per appuntare la sua filosofia di vita di fronte a un coconut shake, ma la coda dell’occhio capta un movimento che mi distrae.
La vedo ancora prima di girare la testa, la longboat delle 13.00 che approda al resort sfornando nuovi turisti.
Gente che va, gente che viene.
Mi volto e Miyagi non c’è più.
L’isola trabocca di personaggi bizzarri come Miyagi, quelle spettacolari meteore che tagliano la scia delle nostre esistenze per il tempo necessario a lasciarci qualcosa in eredità. Come un compleanno festeggiato in anticipo fatto di petali di frangipane e cinnamon roll.
Coppie in anno sabbatico, famiglie con cuccioli appena nati che fanno del viaggio una scuola in movimento, scrittori, pittori, sognatori ed esploratori dello spirito umano, vittime di questo mondo (cit.) abili a reinventarsi, espatriati in cerca di nuove terre dove riposare un po’ le gambe. Arrivano con le longboat assieme a qualche turista e se ne ripartono qualche tempo dopo con il segno degli elastici sulla pelle e il viso rilassato di chi è stato baciato sulla fronte dalla fortuna. Alcuni si trattengono un paio di settimane, altri un mese. Qualcuno capitola e non se ne va più.
Come Rudi, arrivato sull’isola 16 anni fa e così profondamente innamorato di questa terra da sfidare la furia del mare appeso a una palma, qualcosa come una decina d’inverni fa.
Rudi
Passeggio ogni mattina lungo la spiaggia che fiancheggia la costa occidentale dell’isola, così piccola che due ore sono sufficienti a percorrerne tutta la lunghezza. È una spiaggia irrequieta, che muta dimensioni, forma e colore a seconda dell’ora e della fase lunare. Non ha la tonalità di bianco scultoreo che ci si aspetta da un’isola tropicale né la consistenza impalpabile di tanti atolli sparsi per la vastità dei mari, ma questi non sono difetti a mio avviso bensì benedizioni, perché tengono lontane le orde vocianti dei turisti.
Mentre la calpesto stringo gli occhi per osservarla bene. È dorata, cosparsa di conchiglie, geroglifici tracciati dai granchi e frammenti di coralli di quella che un tempo era una barriera corallina.
L’altra isola, quella famosa, è talmente vicina che nemmeno la foschia dell’imminente stagione delle pioggie riesce a nasconderne le forme tondeggianti.
Laggiù il mare chiese indietro l’anima di 2000 persone, qui nemmeno una.
“Salirono quasi tutti sulla collina” racconta Rudi. Non fu il terremoto, fu la paura degli animali e subito dopo la ritirata profonda dell’acqua a convincere i locali a fuggire dalla spiaggia per mettersi al sicuro.
La collina è un monte largo e tozzo alto poche centinaia di metri che si fa largo tra le palme a vite e le piantagioni di alberi della gomma, ricoprendo buona parte del tratto nord. La zona sud invece è pianeggiante, ma l’uomo è fonte di mille risorse nel momento dell’urgenza e se non è possibile individuarla verso l’alto la via di fuga la si cerca altrove. Si salvarono tutti anche laggiù, locali e farang. Gli oggetti invece no, quelli presero il largo per sempre.
Mentre mi racconta di cosa significhi svegliarsi una mattina con un’intera vita da reinventarsi, Rudi guarda lontano, poi indica col dito qualcosa alle mie spalle.
“Lo sai che quello non è il bar originale?”
Mi volto e contemplo maternamente la minuscola struttura in legno sulla spiaggia che si accende ogni tardo pomeriggio per accogliere le chiacchiere e i cocktail dei vacanzieri.
Ci lascerò il cuore in questo piccolo bar tropicale, lo so per certo. E non solo perché serve i migliori Pina Colada della storia, ma perché dai suoi sgabelli di legno si possono contare le mille sfumature del tramonto attraverso il vetro dei bicchieri e perché ha un barista gentile che non lesina mai su sorrisi e danze col fuoco. L’unico barista di mia conoscenza, peraltro, che postpone la creazione dei cocktail per rollare joint di dimensioni fantascientifiche, con profonda soddisfazione dei clienti. E ora vogliono convincermi che questo capolavoro alcolico disperso in mezzo al mare delle Andamane è un clone?
“Cioè?” chiedo piccata.
Ed è così che Rudi mi racconta di quando il bar originale, alloggiato dentro una barca nel punto esatto della spiaggia da cui ora si levano masse dolciastre di effluvi psicotropi, una mattina di dieci anni fa venne scagliato dalla potenza di onde alte sei metri dentro il cuore buio e profondo dell’Oceano Indiano, sui cui fondali, da qualche parte, ancora riposa.
Il dolore talvolta lega a doppia mandata anziché concedere distanza e a Rudi ci vollero mesi prima di riuscire a staccarsi dall’isola e tornarsene per un po’ in Germania. Ma prima di farlo donò mani e soldi per aiutare la gente del luogo a tirarsi fuori dalle ceneri.
Per ringraziarlo gli zingari del mare organizzarono una grande festa in suo onore, suggellando con fuochi, musica e petali di fiori cosparsi sul capo l’inizio di una nuova amicizia. Infine gli fecero dono della cosa più preziosa che un locale possa fare a uno straniero: un pezzetto della propria terra.
Per anni sono stata perseguitata da un sogno. Un’onda si ingrossava strada facendo e si alzava sempre di più, poi, raggiunto il punto più alto, esattamente sopra di me, si rompeva restituendomi in un fiotto alla vita a occhi aperti.
Certe volte guardo il mare e penso che quello che provo è un amore totale e incondizionato, di quello che meriteremmo anche noi esseri umani. L’acqua è il femminile, dice la mia curandera preferita, e abbandonarsi a essa significa assecondare l’onda, lasciarsi andare, perdere il controllo. E ormai l’ho imparato: poche cose preludono al cambiamento quanto l’abbandono.
Ma il mare è anche la massa spaventosa che arriva e porta via, che sommerge e che confonde, che urla, sbuffa e infine inghiotte.
Io l’ho visto solo in sogno, ma nella vita vera è davvero tutta un’altra faccenda.
Aida
Aida sgrana gli occhi quando le dico che ho appena compiuto 40 anni, perciò temo che qualunque mia reazione risulterà insufficiente a esprimere tutto il mio stupore di fronte alla notizia che lei, invece, di anni ne ha ben 81. Sfoggia un pantaloncino che io nemmeno ai tempi del liceo, una camicetta fiorata e un berretto con visiera che la fa tanto assomigliare a ciò che potrei essere io tra qualche lustro.
Ci siamo conosciute qualche giorno fa quando è venuta a vedere la stanza dove alloggio, poi stasera è spuntata fuori come una falena sul fare della sera tra i mille riflessi del cielo che si concede al tramonto.
Dopo avere preso posto sullo sgabello accanto al mio ha ordinato una Chang. E ha cominciato a raccontare.
Di sè, della morte dei genitori, dei mariti, dei figli sparsi qua e là nel mondo come coriandoli. Dei tanti posti in giro per il globo che per frammenti di tempo più o meno lunghi ha chiamato “casa”. La guardo e penso che è vero ciò che si dice, il corpo è una proiezione dell’anima e viaggiare è una delle medicine più potenti che abbiamo a disposizione per conservarci ragazzini. Chissà cosa succederebbe se anziché togliere la macchina ai nostri ottantenni, privarli dei propri hobby e rinchiuderli nella tristezza inglobante di un ospizio mettessimo loro in mano un biglietto aereo.
Mentre continua a farmi partecipe di un curriculum esistenziale che farebbe invidia a un esploratore del ’600, fa un cenno al barista per ordinare un’altra Chang, e allora capisco: questo donnino spumeggiante che giura di consumare appena 2-3 pasti a settimana non si nutre di prana come credevo, si nutre di Chang! Che non è proprio una birra comune (2).
Sto per sfoderare un raffinato parallelismo tra luppolo e soffio divino quando Aida svirgola improvvisamente dal tracciato soft seguito fino a quel momento e si incunea coraggiosamente nella parte più dolorosa delle sue memorie. Che conducono a un altro paese, Sri Lanka, ma sempre alla stessa maledetta data: 26 dicembre 2004. Il giorno in cui il mare decise di portarsi via il suo ristorante, il suo uomo e la vita acerba che la figlia portava in grembo.
Come Rudi anche lei non riuscì ad andarsene dalla sua isola per molto tempo e anche quando, anni dopo, riuscì a farlo, giurando che mai più vi avrebbe fatto ritorno, il mare si ostinò a chiamarla e le isole a sussurrare il suo nome. E lei, che continuava a fare il bagno ma senza mai allontanarsi da riva, senza mai nuotare davvero, senza mai lasciarsi andare, un giorno sentì che la ferita aveva gettato fuori tutto ciò che doveva e che se c’era un modo per ricominciare a vivere era riprendere a seguire la corrente.
(1) Quel Maharishi Mahesh Yogi che anni addietro si accollò i timidi tentativi di illuminazione di alcune celebrità.
(2) Sebbene le accuse di contenere formaldeide (!) sembrino ormai infondate, resta il fatto che un paio di Chang inducono più sintomi post-sbronza di 2 litri di buon rosso. Specialmente se assunte a stomaco vuoto.