Il dottor Worawut ha lo stesso sorriso un po’ fisso e vagamente annoiato che aveva ieri e due giorni fa. Un po’ lo capisco, un dottore su un’isola tropicale ha a che fare con gli stessi sintomi e le stesse malattie ogni santo giorno. Basta guardarlo in faccia per capire che per una volta tanto vorrebbe un paziente affetto da qualcosa di diverso: la Sindrome di Tourette, ad esempio, ma di questi tempi si farebbe bastare anche un depresso, ne sono certa. E invece ecco qua l’ennesima vittima di dengue che non solo lo sommerge di domande, ma per giunta vuole delle risposte: “Il fatto che abbia delle perdite di sangue è grave?” (No, se non mi sporchi il pavimento), “Il numero di piastrine a quanto ammonta?” (Dì, ti sembro un veggente?). Lui ascolta paziente e sorridente, dedica circa 10 secondi a ogni mia domanda gettando colate di vaghezza su una situazione che vaga non puo’ essere, almeno nella mia testa, poi congiunge le mani sul tavolo, si sporge lentamente verso di me e con l’aria di chi mi sta facendo partecipe di un’ottima notizia, dice sorridendo: “600 bath!”Non sono mai stata un’ipococondriaca, ma so che quando è emorragica la dengue non è uno scherzo e il sorriso plastico con cui questo dottorino pacioccoso liquida la mia preoccupazione non solo non mi rassicura, ma mi fa proprio girare le scatole. Decido che è l’ultima volta che il dottor Worawut mi spilla soldi e decido di cambiare strategia. Prima di partire per la Thailandia ho stipulato un’assicurazione: è ora di farla fruttare.
Chissà che cos’ha la Siam Interclinic di Ko Phangan di tanto speciale da essere stata scelta dalla Europe Assistance. Forse è il nome, abbastanza banale da suggerire fiducia secondo parametri frettolosi, o forse sono solo i soliti accordi economici ignoti che poco hanno a che fare con criteri di qualità e standard sanitari elevati.
Raggiungere la clinica è un’avventura di per sé, perché la strada che conduce in questa zona dell’isola è quanto di piu’ scenografico ed erto abbia mai visto. Mentre cerco di impedire a me stessa di scivolare via dal taxi collettivo aggrappandomi con le mani e i piedi a ogni sporgenza che trovo, getto occhiate fugaci al panorama reso traballante dalle condizioni della strada e dalla guida sportiva del conducente e capisco ancora una volta che cosa mi ha fatto innamorare di Ko Phangan. È bella da togliere il fiato.
Vorrei tanto potere dire lo stesso della clinica.
All’inizio spero che ci sia un errore, maledetti taxisti thai che non capiscono mai. Poi mi rendo conto che l’unico errore qui è il mio che mi sono affidata a una compagnia assicurativa cui evidentemente difetta la distinzione tra ospedale e avamposto di cartongesso. Almeno sono una simpatica distrazione per i 4-5 personaggi vestiti da infermieri che si aggirano confusi e annoiati per i suoi 30 metri quadrati.
Dopo essersi assicurati che io sia assicurata,decidono di visitarmi, che qui significa più o meno fare un’ intervista. Da questo momento in poi mi verranno rivolte le stesse domande almeno una decina di volte, al punto che alla fine della giornata saro’ in grado di anticipare le risposte senza che i miei interlocutori debbano nemmeno prendersi la briga di aprire bocca.
Scopro, con stupore, che non solo ho la dengue, ma che questa è la seconda volta che la prendo, perché la forma emorragica sembra essere privilegio di chi è già stato punto almeno una volta dalla famigerata Aedes aegypti. La pressione è bassina e il dottore conclude che devo essere ricoverata in ospedale. E perché proprio un ospedale? Che c’ha, dottore, contro le cliniche di cartongesso?
Si occuperanno di tutto loro, dice, tutto cio’ che serve è l’ok dell’assicurazione a coprire le spese.
Ma come, domando tra me e me, non è ancora stato dato? Vabeh, c’avranno avuto da fare, ma in questi casi basta sollecitare. Chiamiamo l’assicurazione! Ed ecco che inizia il calvario.
Al numero di reperibilità 24 ore su 24 non risponde nessuno. Andiamo bene… Provo e riprovo, niente da fare. Forse mi è sfuggita una postilla; va bene, è un numero per le emergenze, ma insomma anche l’operatore avrà il diritto di andare in bagno una volta ogni tanto, no? Il dottore, vedendo che comincio a innervosirmi, si affretta a rassicurarmi dicendo che ho davanti ancora 10 ore di tempo prima di collassare, ma quando sei al sesto giorno di febbre, hai la pressione di un pulcino e non sai se l’assicurazione coprirà le spese folli dell’ospedale il senso dell’umorismo puo’ diventare un miraggio, allora lo guardo e dico “Non mi importa, anticipo io”. Non vi tediero’ con i dettagli, ma se mi avete seguito fin qui forse non sarà una sorpresa scoprire che nessuna delle tre carte che propongo sembra soddisfare il bancomat della clinica di cartongesso.
Sfinita, avvilita e improvvisamente fatalista, mi sdraio sul lettino e consento alla soluzione salina della flebo di entrarmi in vena, sicura che quello che chiamo il mio angelo custode ha deciso per la prima volta in 39 anni di prendersi una vacanza.
Mentre cerco di concentrare le poche forze rimaste su questo corpicino debole e patito, osservo a occhi socchiusi l’infermiera che si aggira confusa per la stanza, incerta su come occupare il tempo. Quando vede che sono sveglia si rianima improvvisamente e mi chiede “How do you feel?” Ci casco anche stavolta come una novellina e comincio a rispondere, poi mi interrompo vedendo che non mi sta affatto ascoltando e che è di nuovo in cerca di un modo per ingannare il tempo.
Quando finalmente arriva la conferma che l’assicurazione ha deciso di accollarsi il trasporto e la degenza, sono ormai passate 3 ore e la mia pressione rasenta lo stordimento. Mi gira la testa, ma la notizia che tra poco verrò finalmente accolta entro le 4 mura di cemento di un vero ospedale mi fa scattare in piedi. C’è ancora un ostacolo da superare, però: la speed boat che mi porterà a Ko Samui.
Ci sono solo cliniche di cartongesso e dottori Worawut a Ko Phangan e per avere udienza da un ospedale degno di questo nome devo essere trasportata nell’isola vicina. Le infermiere accompagnano me e la mia asta della flebo, che diventerà mio compagno inseparabile per i successivi 3 giorni, fino al porto, dove un meraviglioso motoscafo ci aspetta trepidante. Che bella che è la mia speed boat, così stretta, piccolina, raccolta come una preghiera.
Partiamo velocissimi e vi dirò che il mio lato infantile riesce persino a trovare divertente questo solcare le onde come una scheggia impazzita. Mi aggrappo al bordo della barca cercando di conservare una postura semieretta malgrado gli sballottamenti e l’acqua che entra a secchiate dentro la barca. Quando l’infermiera si siede accanto a me penso “Che carina, guarda come si prende cura di me e della mia flebo”, ma poi spunta un cellulare e senza quasi accorgermene mi ritrovo protagonista involontaria di un selfie abbastanza surreale, con l’infermiera thai che sorride e fa segno di vittoria, io e la mia flebo che cerchiamo di sorridere di rimando per non farla sfigurare.
Ad attenderci al porto, una equipe di dottori che nemmeno Grace Anatomy. Mi caricano sulla barella e mi trasportano attraverso il ponticello traballante del porto fino all’ambulanza.
La prima barella e la prima ambulanza della mia vita.
Che strano il mondo visto dal basso.
“Ha l’assicurazione?” Quando sento la domanda nemmeno apro gli occhi, non stanno di certo dicendo a me. “Signora Camporesi, ha l’assicurazione?” ripete qualcuno costringendomi ad aprire gli occhi. Ma come, siamo ancora a questo punto? Maledetta Europe Assistance latitante. Sì, o almeno così mi hanno fatto credere, rispondo sull’orlo delle lacrime figurandomi già un esito inglorioso, con me che dopo tutta questa fatica vengo lasciata sul marciapiede del Bangkok Hospital a bestemmiare contro il CTS. Senza nemmeno la mia flebo di soluzione salina a farmi compagnia.
Invece a un certo punto qualcosa si sblocca, perché un dottorino tutto a modo dell’apparente età di 15 anni si materializza al mio fianco e mi dice che non devo preoccuparmi, che sono in ottime mani, che questo è il Bangkok Hospital di Ko Samui e qui le stanze non sono di cartongesso. Io ormai diffido anche della mia stessa ombra, ma decido di fare l’ennesimo atto di fede della giornata: il mio angelo custode prima o poi si accorgerà che non è carino abbandonarmi e tornerà a prendersi cura di me.
E mentre mi conducono verso la mia stanza da 5000 bath al giorno, comincio pian piano a rilassarmi e lentamente iniziano a tornarmi in mente le parole che più volte mi sono sentita ripetere in questi giorni: la dengue è una di quelle esperienze che un vero viaggiatore deve vivere almeno una volta nella vita. Una di quelle esperienze senza le quali non puoi dire di essere stato in Thailandia.
Allora non è vero, angelo custode, che te n’eri volato in vacanza. Sei sempre stato qui vicino a me. Volevi solo che non mi sentissi emarginata, in mezzo a tutti questi viaggiatori collaudati. Hai voluto che anch’io provassi la vera Thailandia.
Sento il mio cuore traboccare di gratitudine.
Ora posso finalmente riposare.