Chiamiamolo passatempo, diversivo, divertimento masochistico, persino esperienza di vita se vogliamo. Ma non chiamiamolo lavoro.
Perché se lo definisco “lavoro” muoio all’istante, ne sono certa.
Ho da poco terminato la mia terza settimana di raccolta uva (con una piccola incursione nell’affascinante mondo delle carote) e posso dire con orgoglio di avere collezionato parecchie cose – mal di schiena a non finire, variopinti geroglifici tatuati sulla pelle, corpi estranei dall’inconfondibile odore di uva sotto le unghie e dentro il naso (!!), residui di sangue coagulato sulla pancia e sulle gambe.
Davvero un sacco di cose.
Tranne, ovviamente, i soldi. Soldi di cui necessito come il pane o forse più per comprarmi il van dei miei sogni e iniziare finalmente con Miriam il viaggio che attraverso il deserto ci porterà su fino a Darwin e, da lì, fin dentro le nerissime viscere della cultura aborigena.
600 dolari guadagnati durante le prime due settimane.
E quello – lo realizzo solo adesso – era il paradiso.
Nella nuova farm si parla di qualcosa come 60 dollari per un giorno e mezzo di lavoro snervante. 60 dollari. 60 miseri AUD. After tax per carità, ma non after i 10 dollari di accomodation, i 5 di bus di quella sanguisuga di Max, e ovviamente non after – nient’affatto after – le birre che regolarmente mi tocca pagare quando perdo a biliardo.
Una rapida mano di conti mi suggerisce che mi restano in tasca monete sufficienti per qualche pomodoro, latte, caffè, pane burro e marmellata. Beh, non facciamo i tragici: anche per un po’ di pasta.
Nemmeno un adesivo della Victoria bitter da appiccicare sul finestrino del van riesco a comprare! Ma importa? Alla fine dei conti, intendo: importa? No. Definitivamente e senza rimpianti no.
Il picking fruit è quanto di più simile a una scuola per l’apprendimento della società australiana che abbia sperimentato durante i miei due viaggi in questo lontanissimo e surreale mondo.
Perché è qui che riposa il Paese che sono venuta a scoprire e per il quale ho lasciato il mio lavoro, non a Sydney non a Melbourne non tra i replicanti dell’ideologia americanista ed europeista, ma qui, nei minuscoli paesini della sconfinata campagna australiana dove il silenzio lo calpesti a ogni passo e ne respiri l’odore, qui tra i filari di vite che si perdono a vista d’occhio, tra le strade vuote cosparse di sabbia rossa, gli eucalipti bruciati dal sole cancerogeno.
Qui, dove di molti negozi resta solo un’insegna e una vetrina impolverata, dove un pub è in grado di spalancare le sue braccia generose e accogliere le frustrazioni di un’intera cittadina, dove si annusa l’abbandono, la staticità e tutta la fragilità umana.
Dove incontri le persone più calorose e gentili che il Signore abbia mai catapultato sulla faccia della terra ma anche le più allucinate, annoiate e smaniose di novità, per le quali l’alcool è spesso l’unico modo di arrivare a sera e dimenticare che a questo giorno ne seguirà un altro e poi un altro e un altro ancora e non ci saranno nuovi progetti, non ci saranno sconvolgimenti né rivoluzioni.
Questi spazi così grandi, che spalancano la mente a chi li attraversa per brevi momenti e che scavano voragini in chi li abita, che qui nasce cresce e matura per scoprirsi di colpo inspiegabilmente vecchio e così stanco, imprigionato in una vita che doveva essere solo di passaggio e che invece svela i lineamenti di un limbo grottesco ed eterno, un crudele paradiso perduto stupido come chi un giorno lo ha invidiato.