Ho sempre avuto una certa allergia al capodanno.
Le cene al ristorante costosissime, interminabili, quasi sempre pessime. Una volta ebbero persino il coraggio di rifilarmi una ciotola di fagioli all’uccelletto alle tre del mattino: volevo morire.
La pressione psicologica di dover imbastire in qualche modo un abbigliamento elegante, possibilmente raffinato, magari col tacco, con l’ansia di scivolare poi sul marciapiede coperto di galaverna come Renato Pozzetto sulla buccia di banana.
I BALLI DI GRUPPO E I TRENINI.
E quell’obbligo implicito di dover fare mattino a tutti i costi anche quando nessuno ne può più, con la serata che si trascina tra sbadigli soffocati e una quantità di sigarette preventivata per tutto l’anno incipiente.
Poi grazie a Dio questo ansiogeno bisogno di uniformarmi negli anni si è affievolito, smussato sotto i colpi di una neonata, quanto rivoluzionaria, consapevolezza: nessuno può mettere Baby in un angolo e costringerla ad aspettare alzata lo scoccare della mezzanotte. Soprattutto se fuori fa un freddo cane.
Eppure, qualche capodanno è riuscito a ritagliarsi un angolino d’onore tra i meandri della mia schizzinosa e bucherellata memoria.
Ricordo il primo in assoluto, a sedici anni, in discoteca con la Francesca e la Chiara, i nostri capelli cotonati e un body sintetico dorato avviluppato al mio corpo che se ci penso adesso mi gratto ancora. Fu una serata memorabile, così almeno suppongo, ma con loro mi sarei divertita anche al circolo dei repubblicani a giocare a marafone, perciò non credo che faccia testo.
Segue a ruota il capodanno passato con Davide in via Sara Levi Nathan, nell’anno glorioso in cui dividemmo l’appartamento. Organizzammo un picnic anarchico sul pavimento gelido della mia stanza, condito da una strepitosa colonna sonora a base di Marlene Kuntz e Madredeus e innaffiato da almeno un paio di rossi pregiati, perché Davide è sempre stato un raffinato. Finì con me ubriaca protesa fuori dal balcone del terrazzino a bruciare i foglietti dove avevo riportato tutte le cose da dimenticare dell’anno appena trascorso, tra cui naturalmente il grande e tormentato amore appena naufragato. Anche Davide finì ubriaco, ma a differenza di me i vicini non se ne accorsero, perché lui se ne restò al calduccio dentro casa, deciso a non avere nulla a che fare con un rito così arcaico da finire per essere ai suoi occhi eccessivamente borghese.
Ci furono poi i capodanni esotici, quelli dei primi viaggi. Quello sulla spiaggia di Melbourne con lo sfondo di babbi natale in costume da bagno (un classicone di cui tuttora vado molto fiera) e quello passato a cavalcioni delle montagne russe sulla spiaggia di Santa Monica, accanto al mio migliore amico che se ne stava appeso lassù impassibile, mentre io urlavo a squarciagola.
Fu la volta, poi, dei capodanni mistici. Quello in Toscana col gruppo di meditazione zen, a cantare bajan e a piangere come una fontana, perché i bajan mi fanno sempre piangere moltissimo, e quello nelle Marche, nell’ashram ayurvedico a meditare assieme al guru di bianco vestito e a tentare di purificarmi bevendo tazzone giganti di una tisana amara come il veleno. Sebbene il mio preferito in assoluto resti senza alcun dubbio il capodanno che passai da sola chiusa in bagno a fumare una sigaretta dietro l’altra, con l’obiettivo di consumarne così tante da finire con il voltastomaco e non volerne sapere più per il resto della mia vita. Naturalmente lo stratagemma non funzionò e salutai il primo dell’anno con un mal di testa atroce, in bocca una sigaretta e il sapore fetente del fallimento.
A chi mi tacciava di voler a tutti i costi fare l’originale, persino in uno dei sommi giorni della tradizione nazional-popolare, rispondevo infastidita che l’ultima sera dell’anno era per me una sera come tutte le altre e che festeggiarla non mi pareva più sensato di farsi mettere l’anello al dito prima di riuscire a vedere il mondo.
Ma le cose non stavano proprio così.
Come tutto ciò che viene fuggito, avrei scoperto poi, sotto quel rigetto così netto si nascondeva una grande paura. La paura fottuta di finire per fare qualcosa di normale, di banale, qualcosa che chiunque altro avrebbe potuto fare, proprio io che nell’ordinarietà mi estinguevo come una specie protetta.
Il mio rifiuto non tradiva un sentimento di indifferenza verso una serata di certo sopravvalutata, ma di fatto innocua, quanto piuttosto l’incapacità di soddisfare le altissime aspettative che la mia mente legava alla sacralità di quel momento di passaggio e all’occasione trasformativa che portava con sé.
E così, ogni anno, tra me e me, la stessa promessa: che fosse memorabile, oppure che non fosse affatto.
Ci sarebbero voluti anni, però, prima che questa consapevolezza riuscisse a raggiungere le spesse soglie della coscienza.
Nel frattempo, mi dedicai a capodanni blandi e soporiferi, che raggiunsero l’apice la mezzanotte del 2015, l’anno che segnò il mio debutto alle Canarie. Mi svegliarono per brindare con le bollicine e inghiottire dodici chicchi d’uva secondo l’incomprensibile tradizione locale, che riusciva a sommare in un sol colpo due tra i cibi rituali che più mi fanno orrore, sebbene sempre meno del cotechino. Non ricordo nulla di quel che accadde dopo, ho solo il flash di me che protesto debolmente con la testa che pende di lato, poi di nuovo l’oblio.
Una manciata di anni di anni dopo, finalmente la grande riscossa.
Sto dormendo profondamente nella mia casa herreña da un paio d’ore circa, quando i fuochi d’artificio mi svegliano di colpo. Ci metto nove minuti però per realizzarlo, segno che la mia impermeabilità ai festeggiamenti è negli anni decisamente migliorata.
Mentre a piedi scalzi cammino veloce verso il bagno per battere il freddo al photo finish, mi fermo un secondo davanti alla finestra per sbirciare fuori. Che bella che è Tamaduste così illuminata.
E all’improvviso mi torna in mente quella notte di tanti anni prima, mentre aggrappata alle ali di un aeroplano solco i venti diretta verso la mia amata Australia.
Qualcosa doveva avermi svegliata, perché me ne stavo con la faccia appiccicata al vetro a scrutare il mondo fuori. Sotto di noi, avvertiva la mappa sul monitor, sfilava l’Iraq. Nella notte pesta, la terra spiccava come un mosaico illuminata da mille fuochi d’artificio. Guarda lì che roba, pensai, sembra la notte di capodanno e invece è solo una normale notte di guerriglia.
Faccio la pipì ai mille all’ora e torno di corsa sotto le coperte: devo fare presto, la sveglia suonerà tra meno di quattro ore. Sotto, la borsa dell’acqua calda spande ancora il suo tepore.
È la quinta notte del mio Vipassana e ne mancano altrettante prima del gran finale. L’ho voluto con tutta me stessa questo ritiro, mi sembrava la degna conclusione di questo 2020 scorbutico e surreale che mi ha vista salire e scendere lungo i dossi dell’esistenza così tante volte da avere perso il conto. L’anno del nostro scontento, l’anno del nostro risveglio.
Ad attendermi sulla soglia, stavolta, nessuna aspettativa. Nessun fuoco d’artificio, nessuna nuova me, nessuna rivoluzione. Sempre io, la solita cazzona di sempre, le stesse ferite, la stessa fame di profondità.
Che strano che è, questo capodanno pandemico passato nel cuore di un paesino appeso sull’orlo dell’oceano. È talmente normale da sembrare banale, eppure a osservarlo da qui, la punta del naso fredda che sfiora il plaid, gli occhi che già sprofondano nel sogno promesso, mi pare così bello, così significativo, persino pirotecnico, da fare a gara con i babbi natale in costume sulla spiaggia di Melbourne.
Sono esattamente dove vorrei essere. E finalmente la normalità non fa più paura.