Se faccio un veloce riepilogo mentale mi rendo conto che in nemmeno tre settimane di viaggio in Vietnam ho collezionato una lista di ricordi visivi ed emozionali piuttosto articolata.
Qualche giorno fa, per dirne una, utilizzando i piedi anzichè il sedere solo per pura fortuna, sono scesa da una rampa di scalini viscidi e completamente bui sotto gli occhi irriverenti di quattro mandarini (quelli senza buccia), che mi hanno scortata fin dentro una cattedrale. Nascosta dentro una grotta. Costellata di teche confuciane e piccoli altari buddisti da cercare come premi di una caccia al tesoro dentro il ventre umido della terra, a rubarsi lo spazio tra enormi stalattiti gocciolanti, iscrizioni scolpite nella roccia e fioche scie di luce provenienti da una piccola apertura sulla sommità della caverna.
Uno spettacolo da restarci secchi, di quelli capaci di togliere ogni dubbio sull’esistenza di Dio al più agnostico degli scettici.
Poi arrivare a Hoi An, tre giorni fa, mi ha dato il colpo di grazia.
Il Vietnam è così bello che crea un fastidioso senso di inferiorità in chi l’osserva. Percorrere questo Paese senza calpestare un Patrimonio dell’Umanità è impresa talmente ardua che certe volte si viene colti dal desiderio irrefrenabile di andare a rifugiarsi in un posticino anonimo, come uno di quei paesini avvolti nella nebbia della pianura padana che quando ci passi attraverso nemmeno te ne accorgi.
Tutta questa Umanità può essere davvero faticosa.
Eppure, ancor più della sua bellezza, c’è un altro aspetto del Vietnam che so per certo avrà la meglio sugli insulti che il tempo infligge alla memoria, destinata a languire come tutto ciò che riluce a questo mondo (e la mia, mi duole dirlo, parte per sua natura da una posizione particolarmente svantaggiata).
Ciò che fin da subito mi è entrato dentro, per fortuna solo metaforicamente parlando. Il vero tratto distintivo del Vietnam, la sua anima, il suo cuore pulsante.
Il traffico
Appena arrivata ad Hanoi ho pensato che il traffico in Vietnam fosse un problema terrificante. Solo più tardi ho capito quanto poco questo mio giudizio gli rendesse merito.
Più che un problema, ora che lo conosco un po’ più da vicino, lo definirei uno stile di vita.
La letteratura riporta infatti che il vietnamita senza traffico è come la mela di Platone senza la sua metà: un essere irrisolto. Ecco perché ce ne si prende cura in modo così meticoloso e appassionato.
E consapevoli che le regole minano la vera essenza di cose e persone bloccando il flusso della creatività, i vietnamiti hanno deciso di allestire nelle proprie strade l’unico ambiente che potesse salvaguardare le basi della libertà umana: la più totale, arcaica anarchia.
Le file che si creano ai semafori del Vietnam sono uniche: anzichè svilupparsi in verticale lo fanno in orizzontale. Non esistono quelle regole di cui il mondo occidentale si dota per fluire più veloce. Benvenuti perciò i sorpassi a destra e a sinistra, le svolte effettuate sul lato di asfalto che più aggrada, benvenuta l’ottica in cui le linee di carreggiata sono più accenni di possibilità che direttive vere e proprie e i colori del semaforo un suggerimento da interpretatare in base alla contingenza e alle proprie esigenze.
Il traffico in Vietnam obbedisce a una sola regola: quella del più forte. Se sei titubante di natura e rispettoso del codice stradale che conosci, dammi retta, non affittare un motorino mentre visiti questo Paese, perché saresti spacciato.
L’unica è fare come quando si vota alle elezioni: chiudere gli occhi, buttarsi e sperare che tutto vada per il meglio!
Ma il traffico, da queste parti, è molto di più che semplicemente anarchico.
È anche terribilmente assordante. Ed è qui che entra in scena il secondo protagonista indiscusso delle strade vietnamite.
Il clacson
Non ho sufficienti prove per avvalorare la mia tesi, naturalmente, ma basta l’osservazione empirica per intuire che qui i ragazzini imparano a salire su un motorino ancor prima di saper fare di conto. È dalla cima di una sella che avviene la conoscenza del mondo e ci si affaccia su quella parentesi di vita così faticosa che risponde al nome di età adulta.
Ed è sempre ricorrendo al buon vecchio buonsenso logico che ottengo elementi sufficienti a intuire quale potrebbe essere l’insegnamento base in una qualsiasi scuola guida di questo Paese. Me lo vedo già l’insegnante che, dopo avere dato una pacca sulla spalla dell’allievo, gli riassume velocemente la situazione prima di spedirlo in pasto al mondo: “Allora, ricapitoliamo, giri a destra la chiave, premi il pulsante dell’accensione e ti fiondi nel traffico attaccandoti al clacson!”
Dovete sapere, infatti, che da queste parti il clacson non è un ausilio su un mezzo di trasporto: è un’appendice del corpo del guidatore. Una presenza la cui assenza fa sentire completamente persi. Lo dico perché l’ho sperimentato in prima persona l’altro giorno. Quando all’atto di attraversare una strada a piedi mi sono ritrovata sul ciglio opposto senza che l’orecchio avesse registrato un solo trombettio, il mio primo pensiero è stato: sono diventata sorda.
Il vietnamita non suona perché gli tagli la strada. O perché ti dimentichi di dare la precedenza. O perché dai l’impressione di stare per fare una manovra azzardata. Nessuna di queste futilità attraversa la mente del guidatore vietnamita, impegnato com’è a esplicitare una delle azioni culturalmente più intriganti dal punto di vista di un occhio straniero: suonare senza alcun motivo.
Giuro, ho prestato attenzione negli ultimi tempi, perché talvolta capita che io stessa soccomba al mio amore per il paradosso. Così l’altro giorno ho fatto un esperimento. Ho attraversato una strada deserta. Solo un motorino si palesava timido all’orizzonte, nessun pericolo di avvicinamento, figuriamoci di scontro. Ma pur messo di fronte a una situazione ai limiti dell’impossibilità, lui non mi ha tradito. Senza attaccarsi alla solita veemenza, per convenire sull’effettiva mancanza di pericolo, due colpetti secchi li ha comunque dati, giusto così per non risultare maleducato.
Ed è stato lì che ho capito che non è affatto vero che i vietnamiti suonano senza motivo. Il motivo c’è, eccome se c’è, e l’ho anche sperimentato sulla mia pelle quando ho deciso di miscelarmi anch’io a quel blob fumoso e assordante e avventurarmi per le strade di Hue.
Dapprima titubante, sfumando la vista laterale e coltivando l’ampiezza dei miei respiri, ho pian piano preso coraggio e mi sono buttata in mezzo a quel delirio. E forse per festeggiare il fatto che ero sopravvissuta allo scontro titanico, a un certo punto ho deciso di farlo anch’io: ho premuto il pollice sinistro sul clacson.
Due volte, indugiandovi sopra, senza alcuna fretta di smettere. Due colpi belli, profondi e prolungati. Perfettamente inutili, dati con l’unico motivo di darli.
Come una vera vietnamita.