Di come il nomadismo mi ha portata a cercare le mie radici e di come, ricercando le mie radici, io sia tornata finalmente a casa.
In tutti i sensi.
Le nuove seguaci di Diana e il risveglio del Sacro Femminile
Fu prima che il Cristianesimo uscisse dalle catacombe per tornare a predicare il Verbo in pieno giorno. E che poi, secoli dopo, da perseguitato divenisse persecutore e cominciasse a imporre il suo diktat su ciò che è meritevole, degno del Cielo Eterno, e ciò che invece è da considerarsi peccato, via preferenziale per scendere all’Inferno.
Prima che il Vecchio Mondo conoscesse la pagina più oscura della sua lunga e turbolenta storia e cominciasse a punire chiunque virasse dal tracciato segnato, stigmatizzando, esiliando, imprigionando, torturando, riducendo in cenere milioni di persone, gran parte delle quali donne.
E prima, decisamente prima che la mentalità “dotta” appiccicasse ad antichi riti agresti e culti manistici vecchi di millenni lo stigma infamante del Satanismo, trasformandoli in sordidi ritrovi anti-cristiani dediti a vergognosi atti di apostasia.
Prima di tutto questo, c’erano loro: le Seguaci di Diana. Diana, la Dea Vergine, indipendente e intrepida, simbolo di autonomia, integrazione e libertà intellettuale e sessuale, Regina della notte e dei boschi, della fertilità dei campi, della vita che arde perenne e perenne si perpetua. Diana, l’Eretica per antonomasia.
Il nome tramandato attraverso i secoli non è sempre lo stesso. A seconda dei luoghi, Diana diventa Holda, Erodiade, Bensozia, Madonna Horiente, o semplicemente “La Signora”, nome che richiama un’altra divinità associata all’oscurità e appartenente a un mondo ancora più antico, pre-indoeuropeo: Ecate. La Signora della Notte e del parto, la divinità psicopompa che accompagna i morti nell’aldilà, che protegge i demoni e i defunti. Attenzione: protegge i demoni, non li aizza, né tantomeno li riverisce.
La storia dotta e popolare del Vecchio Mondo racconta spesso di queste divinità, Donne Archetipo al cui seguito si volava durante le notti manistiche per superare i confini tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti e attorno a cui, nei giorni salienti del calendario agricolo, ci si riuniva per raccogliere le erbe intrise di potere e celebrare, attraverso l’unione sacra della Dea e del Dio Bifronte, la sacra e sensuale perpetuazione della vita. Viaggi estatici di origini antichissime, la cui credenza era sopravvissuta fino al Medioevo, quando la crociata condotta dalla Chiesa e dal tribunale della Santa Inquisizione li aveva trasformati in sabba, le presunte riunioni notturne delle streghe condotte sotto lo zoccolo del Diavolo*.
(* Per approfondire: Streghe, Malefici e magia popolare in Romagna, di Simona Camporesi ed Eraldo Baldini, Ponte Vecchio, 2022.)
Magari qualche celebrazione un po’ sopra le righe e generose concessioni al piacere carnale, trampolino per l’infinito, ma nessun atto di apostasia, nessun infanticidio. Solo donne in contatto con il proprio potere, occhi puntati alla luna e piedi affondati nella terra.
Streghe sì, dunque, ma streghe molto diverse da quello che ci hanno raccontato.
Per ritrovarle nella loro veste originale, precedente alla Grande Manipolazione, occorre abbandonare la storia “dotta” per addentrarsi in quella popolare, acronica e ageografica, dove il simbolo e l’archetipo ammantano di magia la fredda cronistoria.
Celebranti dell’esistenza che danzano di notte a piedi scalzi in mezzo ai boschi.
Erbaiole e medichesse che conoscono i semplici e li raccolgono nel momento di maggior potere.
Mamitas che dialogano con l’invisibile e sanno muovere le energie.
Donne selvagge che cavalcano l’onda della vita, che onorano il fiume rosso che scorre loro tra le gambe, che seguono la luna e sotto i suoi raggi d’argento ritrovano la propria voce primordiale.
Figlie di un secolare lignaggio di potere, schiacciato ma mai dimenticato, discendenti dirette della Dea Madre.
Donne creatrici e guaritrici, sacerdotesse antiche e moderne, donne libere, Femmine sacre.
Ma cosa c’entrano le Seguaci di Diana e il Sacro Femminile con una nomade digitale?
Nulla, verrebbe da dire.
O forse tutto.
Il lungo viaggio alla scoperta della mia Sacralità
Era il 2021 e vivevo su una minuscola isola dell’Arcipelago Canario con due galline, quindici alberi di mango e millemila gatti, quando arrivò la chiamata.
Sulla carta sembrava una follia: un percorso immersivo di due anni, di cui uno da frequentare in presenza in un luogo non meglio precisato del Chianti, prospettiva che mal si incastrava con la mia vita recentemente imbastita dall’altra parte dell’oceano. Una vita che, per inciso, mi piaceva un sacco. A questo si aggiungeva un costo non indifferente, soprattutto per chi, come me, a causa dell’ennesima crisi esistenziale, si era da poco votata a una sorta di anno sabbatico. Ma a rendere il tutto ancora più bizzarro era il fatto che quel corso sembrava non c’entrare nulla con me, né tantomeno con il mio lavoro di editor e ghostwriter freelance.
Master per Operatrici del Sacro Femminile e Sacro Maschile, così si chiamava. Manco sapevo cos’era il Sacro Femminile, figuriamoci se poteva sembrarmi plausibile l’idea di poterne diventare un giorno ambasciatrice.
Eppure, che non avevo scampo lo avevo capito subito leggendo il programma del corso, appena partorito nel cuore dell’Amazzonia peruviana, quando un rivolo caldo mi si era sciolto dentro la pancia, e alla bocca dello stomaco si era spalancata come una specie di vertigine, quella che nella mia esperienza da sempre preludeva alle cazzate colossali o alle più grandi benedizioni. Che poi finiscono spesso per coincidere.
Naturalmente capitolai. Mi sottoposi al colloquio per la selezione e qualche giorno dopo feci il bonifico per l’acconto con un sorriso largo quanto l’alba di Tamaduste.
Avrei scoperto in fretta che non era affatto vero che il Master non c’entrava niente con me, anzi, era il fil rouge che univa alcuni tra i puntini più luminosi disseminati fino a quel momento dalla sottoscritta lungo la via.
La natura e i piedi scalzi.
I riti e le tradizioni popolari.
La magia e il mondo dell’invisibile.
I sogni.
Persino la scrittura.
***
Quello che segue è il racconto di ciò che avvenne dopo quel senso di vertigine alla bocca dello stomaco.
Di tutte le congiunture terrene e astrali che dovettero intrecciarsi affinché una editor nomade digitale temporaneamente parcheggiata alle Canarie si ritrovasse contro ogni previsione a mollare un giardino affacciato sull’oceano e la promessa di una primavera eterna per tornarsene in un’Italia collassata sotto il pessimismo post pandemico e il grigiume dell’incipiente autunno.
E non solo a tornarci, ma a decidere di restarci. E non solo a restarci, ma persino a comprarci casa! Proprio lei, a cui il pensiero di avere una dimora fissa era sempre sembrata la promessa di un piede nella fossa.
Per ritrovarsi infine, due anni dopo, a vivere in un piccolo paesino delle colline romagnole dove si ama salutare il mezzogiorno con l’allarme di una sirena, perché un rintocco di campane pareva troppo banale.
Preambolo: El Hierro e le prime prove tecniche di sedentarietà
Il mio bisogno di radici era cominciato due anni prima con una strana voglia: comprare un frullatore.
E che problema c’è? direte voi. C’è che per avere un frullatore avevo bisogno di una cucina dove metterlo e per avere una cucina dove metterlo mi serviva una casa. Ma non una di quelle temporanee come avevo avuto da sei anni a quella parte, ma una casa vera, stabile, di quelle dove mettere il nome sulla buchetta della posta. Mica potevo infilare un frullatore dentro il trolley. Così avevo deciso di mettere il nomadismo in stand by per un po’ di tempo e fare un esperimento di sedentarietà.
La scelta era caduta sull’isola che durante quegli anni girovaghi mi aveva rubato il cuore: El Hierro.
Per una come me, devota alla precarietà e al randagismo, “casa” era sempre stato un concetto piuttosto relativo, che cambiava forma e consistenza ogni volta che prendevo un volo. Finché un giorno qualcosa era cambiato. Quel continuo gironzolare aveva cominciato a pesarmi, lasciando spazio al desiderio di fermarmi da qualche parte e vedere se sotto a quei piedini inquieti non ci fosse per caso il pallido getto di una radice.
El Hierro mi aveva accolta calorosa, facendomi incontrare quasi subito una casa con le porte e le finestre rosse che sembrava perfetta per il mio esperimento. Pur essendo a due passi dall’oceano era a tutti gli effetti una casa di campagna, con il suo bel carico di formiche, topi e cucarachas, un sacco di terra attorno piena di alberi di mango e un orto abbandonato in fremente attesa di nuovi germogli.
Affondare le mani nella terra era stata per me una piccola rivoluzione. Avevo scoperto che lavorare la terra non solo mi piaceva ma mi permetteva di bilanciare il lavoro intellettuale che svolgevo al pc, convogliando l’energia dalla testa ai piedi e regalando alla mia testolina frenetica una quiete inconsueta.
Ma la terra aveva fatto molto di più che aiutarmi a trovare una parvenza di equilibrio: aveva cominciato a parlarmi di radici. Quelle che non conoscevo. Quelle che da sempre mi annoiavano a morte. Quelle che avevo sempre rifiutato, perché mal si addicevano a una creatura raminga come me, votata per costituzione alla libertà e all’anarchia esistenziale.
Era stato lì, tra i manghi e le blatte, che avevo cominciato per la prima volta a sospettare che il mio rifiuto per le radici c’entrasse ben poco con la libertà, anzi, che la paura di fermarmi potesse essere in realtà una specie di prigione camuffata sotto mentite spoglie.
Che cosa mi aveva spinta davvero a lasciare l’Italia e a girovagare come una trottola per tutti quegli anni? Perché l’idea di restare mi spaventava così tanto?
Certo, la mia natura inquieta allergica alla routine, l’impulso ad ampliare gli orizzonti e l’attrazione fatale per tutto ciò che è sconosciuto avevano avuto un ruolo determinante, ma ero davvero sicura che sotto non ci fosse altro? Ero davvero così libera come mi raccontavo?
Nella quiete della Casa dei Manghi le risposte avevano cominciato pian piano ad affiorare. E non erano molto piacevoli.
Mi ero resa conto che le parole che spesso in passato mi ero sentita rivolgere come un’accusa, accusa di fronte alla quale regolarmente mi indignavo a morte, nascondevano un fondo di verità. La mia ossessione per il viaggio era sì il frutto di un istinto e una passione viscerale, ma anche di qualcosa di assai meno poetico. Era figlio di un’inconscia, ma meticolosa, strategia di fuga.
Fuga dal mio sentirmi a disagio e fuori posto.
Fuga dalla mia vulnerabilità.
Fuga dalla mia ferita da rifiuto, che mi costringeva ad andarmene via – dai lavori, dai luoghi, dalle relazioni – prima di essere allontanata.
Fuga dal mio corpo, da sempre relegato in secondo piano rispetto a una mente strabordante. Un corpo che aveva assorbito il rifiuto, lo svilimento, la non considerazione, e li aveva cicatrizzati in un grappolo rigoglioso di fibromi dentro l’utero, preposti a colmare i vuoti che vegetavano dentro.
I miomi e i forti disagi che da un po’ di tempo a quella parte mi causavano erano le urla cristallizzate di una bambina che chiedeva disperatamente di essere vista e riconosciuta, accolta nella sua fragilità, ascoltata e coccolata. Di un amore verso me stessa concesso sempre col contagocce e al riparo da occhi indiscreti, perché la fragilità, aveva imparato quella bambina, andava protetta ad ogni costo per non prestare il fianco agli approfittatori. La mia vulnerabilità, lungi dall’essere percepita come un dono, era sempre stata ai miei occhi la promessa di un imminente annientamento: quella del Femminile ad opera del Maschile. La paura del Patriarcato che diventa carne.
Giorno dopo giorno, di fronte a me aveva iniziato a delinearsi un quadro, dove ogni pezzo apparentemente scollegato sembrava trovare posto.
E l’idea bizzarra di tornare in Italia aveva cominciato lentamente a farsi largo.
In cerca delle mie radici: il rientro in Italia
Nell’ottobre del 2022, un mese esatto dopo l’inizio del Master, una serie di eventi congiurò per farmi tornare in Italia.
La mia adorata casa con le porte rosse era appena stata venduta e lo avevo preso come un segnale di cambiamento da afferrare al volo senza troppi rimpianti. Alla vendita si erano uniti il bisogno di ottenere un consulto approfondito sulle condizioni del mio utero, perché della sanità herreña mi fidavo come di un deputato di Fratelli d’Italia, e una strana voglia di casa e di famiglia, che la forzata lontananza dal mio Paese dovuta alla recente pandemia aveva acuito. L’idea era di restare giusto un paio di mesi, fare indigestione di abbracci e cappelletti e poi scoprire verso quali lidi mi avrebbe portata il vento.
L’impatto fu devastante. La patina di romanticismo con cui avevo imbellettato il mio rientro venne scrostato in un istante. Il mio corpo, disabituato al freddo, reagì stizzoso offrendo terreno fertile a virus e batteri, e l’umore, dopo una sequenza infinita di giorni grigi e limacciosi, lo seguì a ruota rattrappendosi come la pelle delle dita quando stanno immerse nell’acqua per troppo tempo.
A salvarmi fu la natura.
Il percorso sul Sacro Femminile e Maschile prevedeva un processo di radicamento in natura piuttosto spinto, che io, naturalmente, fervente devota della Sindrome del Perfezionismo, seguivo alla lettera. L’invito era di andarci almeno tre volte a settimana con qualunque condizione atmosferica e restarci almeno un’ora, tempo ritenuto il minimo sindacale per sentire.
Sentire il battito della Madre e delle sue creature. Sentire il cordone ombelicale che ci connette a lei. Percorrerlo come un filo dorato e percepire, attraverso di esso, la nostra voce primordiale.
Malgrado di autunni ne avessi visti ben pochi negli ultimi anni, non avevo alcun dubbio che quello fosse il più merdoso degli ultimi 220 anni. Vento, pioggia e cieli grigi si davano appuntamento ogni santa mattina sotto l’appartamento che avevo trovato a Cesena, puntuali come le tasse.
Ogni volta che uscivo per raggiungere una parvenza di bosco, cominciava l’avventura. Infagottata fino all’orlo delle ciglia, affrontavo la pioggia e il vento con lo spirito di un capretto sacrificale, avanzavo confondendo le lacrime alla pioggia e mi chiedevo chi me lo avesse fatto fare di lasciare il mio piccolo paradiso sull’oceano per quel piattume color topo di Londra. Certi giorni la nostalgia per la mia isoletta era una mano uncinata che mi scavava dentro le viscere, ma io andavo avanti a testa bassa confidando nella misericordia del buon Dio, che di certo mi avrebbe ripagata per lo meno con l’illuminazione.
Appena possibile lasciavo il sentiero battuto e mi inoltravo nel putridume della boscaglia. Mi facevo largo come un indio in mezzo alla selva, impigliandomi nei rovi e affondando nel fango con la dedizione di un monaco che si batte il petto col cilicio. Continuavo a vedermi protagonista di uno di quei meme che mettono a confronto l’aspettativa con la realtà: a sinistra una fanciulla con il gonnellone a fiori che danza radiosa in mezzo alle margheritine, mentre il sole si spande copioso sui suoi capelli color dell’oro e un putto canta melodioso sulla sua spalla; a destra io, infangata come un vietcong, con doppia calzamaglia e una spina di rovo infilzata nel sopracciglio.
Facendo attenzione a evitare le pozzanghere, raggiungevo il mio albero e mi accomodavo sulle sue radici, toglievo gli scarponi, sfilavo il doppio strato di calzini e appoggiavo con circospezione i piedi nudi sulle foglie scivolose. L’impatto con la terra fradicia era sempre uno shock ma pian piano svaporava in una sensazione quasi piacevole, che sapeva di sostegno e intimità.
Io e la terra, io e il mio albero.
Le sue radici, le mie radici.
Facevamo lunghe chiacchierate, io e il mio albero. Uno di fronte all’altro come vecchi amici, io con una sfilza di domande lunga da qui all’eternità, lui prodigo di risposte criptiche, che mi affrettavo ad annotare sul quaderno senza fare caso alla punteggiatura e alla consecutio (dio degli editor, abbi pietà di me).
C’erano giorni, invece, in cui anziché parlare ce ne stavamo zitti e ci connettevamo per vie sottili.
Scoprivo la pancia nell’aria gelida, le appoggiavo sopra una mano e l’altra la mettevo a terra, connettendo il mio utero affaticato a quello gravido della Terra, perché si conoscessero e facessero amicizia. Leggi i miei codici, le dicevo, guarisci tutto quel che c’è da guarire, aiutami a lasciare andare quel che deve andare e ad amare quel che invece deve restare.
Altre volte ancora non facevo proprio nulla, tranne respirare lenta a occhi chiusi, grata del silenzio che mi avvolgeva e di quell’odore primordiale che sapeva di casa, ma non della casa dove mettere un frullatore, di quella che abbiamo dentro il ventre.
Consapevole che tutto a questo mondo segue un’onda, anche la gioia, anche il dolore.
La (ri)scoperta della Sacra Ciclicità
Uno dei motivi principali che mi avevano portato nel 2014 a lasciare l’Italia e l’ufficio per diventare una nomade digitale era un odio viscerale per l’inverno.
Il freddo mi aveva sempre messo addosso un forte senso di disagio, il mio corpo soffriva a starsene rattrappito per mesi sotto spessi strati di vestiti, i piedi murati dentro gli scarponi come prigionieri tenuti sottochiave. L’apice del disagio però non veniva raggiunto in pieno inverno ma durante il suo preludio, in quell’anticamera dell’inferno chiamato autunno, e in particolare nel mese di novembre, quando le giornate collassavano sotto pennellate di grigio color topo morto dentro una pozzanghera londinese. Consideravo il fatto di essermi lasciata alle spalle quell’agonia come una delle mie più grandi conquiste, fonte di perpetuo vanto, perché mi permetteva di vivere al caldo la stragrande maggioranza dell’anno, regalandomi un tempo dilatato e diluito fatto di poche e trascurabili escursioni termiche, una sola stagione contro le quattro abbandonate.
Mai avrei pensato che un giorno sarebbe stato proprio questo a mancarmi di più: il succedersi delle stagioni, il loro scivolare l’una dentro l’altra.
Lo avrei capito qualche mese dopo durante l’esplosione della primavera, la prima dopo il mio ritorno in Italia. Le cavolaie sui sentieri ancora inzuppati di fango, l’aria dolce di certi pomeriggi mentre tornavo a casa dalle mie passeggiate, le prime pennellate di giallo sui campi a perdita d’occhio, mi riempirono di un senso di euforia che avevo dimenticato. La gioia incontenibile di chi ha atteso la primavera tutto l’inverno, il trionfo di chi ha tenuto duro, il premio meritato del sopravvissuto.
Sembra impossibile, lo so, ma me ne resi conto solo allora: vivere al caldo tutto l’anno mi aveva resa orfana, e non solo di quel senso di conquista, ma anche di alcune fasi cruciali dell’onda sacra della vita. Il momento della morte, della discesa dentro di sé; il momento della riflessione e del riposo, dei remi ritirati in barca prima della grande traversata.
Rinunciando all’autunno e all’inverno avevo spezzato il cerchio della vita, lo avevo reso monco. E senza il suo esempio, anche io avevo perso un pezzo.
Grazie al fluire delle stagioni nuovamente sulla pelle, approfondii la connessione con me stessa e la mia ciclicità interna.
Noi donne abbiamo il privilegio di vivere costantemente dentro di noi la danza della vita attraverso il ciclo mestruale, fatto anch’esso di quattro fasi, proprio come le stagioni, ognuna delle quali è fondamentale per l’intero ecosistema.
Avevo cominciato a guardare alla mestruazione come a qualcosa di più che a un mero impiccio da appena qualche mese, quando ancora vivevo alle Canarie.
Una donna meravigliosa conosciuta online mi aveva condotto in questo mondo a me ignoto fatto di onde ormonali, fasi lunari, maree esterne e interne. Su suo suggerimento avevo cominciato a tenere un diario di bordo, che compilavo con dovizia ogni giorno. Luna dopo luna, fase dopo fase, costruivo la mia ruota mestruale inzuppandola di colori, eventi, sensazioni e sogni, i cui puntini pian piano si andavano a unire in un frattale, complesso se visto da lontano, semplicissimo se osservato da vicino.
Quella mappa dava per la prima volta un senso a quella che avevo sempre considerato la manifestazione di una mia schizofrenia latente. Il diventare improvvisamente orsa, la voglia di chiudermi in casa e non vedere più nessuno, la malinconia che esplodeva senza preavviso, non erano più avvenimenti incomprensibili che mi piombavano addosso come una maledizione, ma espressioni di un processo del tutto naturale. Non solo, quei repentini cambi di direzione ‒ da fuori a dentro, dalla luce al buio, dal rumore al silenzio ‒ avevano una funzione importantissima: “costringere” il corpo e la mente al riposo e all’introspezione. L’onda bassa necessaria a caricare le energie per dare la spinta all’onda alta.
Guardare sotto l’apparente caos della vita per scorgerne la sacra geometria era una sfida affascinante, un po’ come tornare bambini e seguire gli indizi di una caccia al tesoro fino al ritrovamento del forziere.
C’era un flusso incessante, fuori e dentro di me, che mese dopo mese, ormone dopo ormone, mi attraversava raccontando storie che avevo dimenticato, di me e delle mie antenate. Mi intrigava molto questa corrispondenza tra le ciclicità della luna in cielo e quella della mia luna interna. A volte erano speculari, la luna piena, alla sua massima espansione, e io in contrazione, oppure lei invisibile, colore della notte, e io un fiume rosso che esondava trascinando con sé i detriti. A volte invece accadeva la magia e i due ritmi si allineavano come il respiro di due anime gemelle.
Presto però mi resi conto che il compito non era ancora terminato.
Dopo avere (ri)scoperto il ritmo della vita, dopo averlo ascoltato, sentito addosso, dopo averlo compreso, adesso quel ritmo dovevo integrarlo.
Cavalcare l’onda: il ritorno della Strega
La sfida successiva fu imparare a cavalcare l’onda.
Avevo passato una vita intera a combattere certe manifestazioni del mio essere, a confrontarmi con le amiche e a giudicare impietosamente ogni discrepanza che coglievo. Maledicevo le mie perenni montagne russe e provavo continuamente a smussarne i picchi, a livellarli per renderli uniformi, limitandomi o forzandomi a seconda della contingenza.
Nessuno mi aveva mai spiegato che ogni persona ha il suo ritmo personale e che l’obiettivo è scoprire quale sia e trovare il modo di accordarsi ad esso, anziché cercare di uniformarsi a quello degli altri.
Per la prima volta conoscevo la magia di conoscermi nel profondo in una modalità completamente nuova, non più razionalmente, attraverso i processi della mente, ma attraverso il corpo e il suo linguaggio antico e viscerale.
Scoprii che quel corpo che così spesso avevo messo da parte, ignorato, bloccato, non compreso, era uno strumento straordinario, un diapason sofisticato in grado di vibrare alla frequenza dell’universo, centralina del mio stato d’animo, cane da fiuto per il pericolo e il riconoscimento delle anime affini, cartina tornasole per i desideri repressi e i limiti autoimposti.
Mi resi conto che era l’onda a dettare il ritmo e che più io provavo a seguirla e più attorno a me si creava armonia, mentre se provavo a contrastarla le cose si complicavano all’istante: non solo lo sforzo raddoppiava, ma mi allontanavo sempre più dalla meta, come una barchetta in mezzo al mare che se va contro corrente non solo mette a dura prova la resistenza della vela ma rischia di rompere l’albero e rovesciarsi.
Cominciai allora a surfare l’onda. A ritirarmi nelle fasi discendenti e a manifestarmi nelle fasi di espansione. A celebrare e a vivere con solennità ogni momento.
Diventai una sacerdotessa che onora i cicli: la mestruazione, le fasi lunari, le eclissi, i solstizi e gli equinozi.
Imparai a usare le erbe per pulirmi e ricaricarmi, per darmi sostegno e trasformare. Ad accendere incensi e candele per riequilibrare le energie, a percepire gli elementi naturali nella loro espressione terrena e a sfruttarne l’enorme potere nella loro manifestazione archetipica. A donare nutrimento alla terra e a riceverlo da lei.
Diventai una ragazzina che inciampa guardando la luna e che mentre inciampa ritrova la propria Sacralità.
Diventai strega, o forse è più corretto dire che tornai ad esserlo, membro onorario della grande tribù delle Nuove Seguaci di Diana sparse per il pianeta.
E mi alzai in volo.
E in quel volo mi guardai indietro e ritrovai me stessa, sentendo per la prima volta un senso di appartenenza, io che per inseguirlo avevo girato il mondo.
Sentii le mie radici.
Il legame con la mia famiglia e i miei antenati, con i riti e le tradizioni della mia terra.
Il filo sottile che, attraverso di me, connetteva ciò che mi aveva preceduto con quello che un giorno mi sarebbe sopravvissuto.
L’unione con la Terra, il Fuoco, il Vento e l’Acqua.
La connessione con la Grande Madre.