In ogni uomo c’è un eremita dedito al ritiro e alla contemplazione.
E in ogni uomo c’è un piccolo Indiana Jones dormiente, in attesa che un qualche richiamo gli faccia drizzare le orecchie strappandolo dal suo letargo.
Il fascino dell’ignoto, il profumo della giungla, la voce di piccoli tesori etnici sparpagliati tra le montagne. Quel profumo di possibilità, di avventura, di sconosciuto che solletica i sensi e fa fremere i piedi. Ciò, per capirci, che fa sì che si sfiori la Grande Grotta di Chiang Dao ma si proceda oltre, concedendole altezzosi appena una sbirciatina con la coda dell’occhio, perché siamo d’accordo che è una grotta celebrata in ogni guida turistica, ma insomma che sarà mai? Una grotta è sempre una grotta, spero non la metteremo sullo stesso piano di una visita a un vero villaggio tribale!
E poiché non ha senso semplificarsi la vita quando complicarla è così divertente, nauralmente niente tour organizzato, perché quelle sono cose da turisti. Non sia mai che qualcuno possa vedermi seduta comoda e fresca in un autobus con l’aria condizionata quando c’è una ghiotta opportunità di salire su un motorino sghangherato di un altro Indiana Jones fuori tempo e immergermi nel vapore caldo da non turista e godermi tutte le buche da non turista e respirarmi l’aria gonfia di cenere da non turista.
È così che ci ritroviamo a inerpicarci su per una strada stretta che dal centro di Chiang Dao taglia verso le montagne, là dove si apre il mondo delle hill tribes (1). La nostra destinazione è un piccolo villaggio Karen (2) dove alloggeremo nella casa di Lugher.
A differenza dei loro cugini più appariscenti, i “nostri” Karen hanno colli normali e ad attenderci non è un villaggio finto creato ad hoc per il nostro “divertimento”, ma un villaggio in carne e ossa. Polvere, maiali selvatici e galline comprese.
Ci accoglie Lugher, sorriso di cuore generoso e denti rovinati dal Betel. Ha una bella faccia rugosa e saggia, il fisico di chi ha camminato a lungo sotto il sole. La sua casa è come lui: anziana e semplice, una palafitta di bambù dove vive con la moglie e il cui piano superiore è adibito ad accogliere i rari ospiti che capitano da queste parti. È lì che dormiremo, su due materassi sottili e polverosi. Non ci sono armadi, non ci sono comodini, la luce viene accesa e spenta dal piano inferiore. Il bagno è fuori, a qualche metro di distanza dalla casa: una capanna con pavimento in terra, una turca e un secchio con l’acqua per lavarsi. L’Indiana Jones che è dentro di me gongola, tutto è sufficientemente rustico per i suoi gusti.
Ceniamo all’aperto seduti a gambe incrociate su un vecchio letto di ferro battuto ricoperto di assi di legno. Il cibo è semplice e delizioso. Lugher ha imparato l’inglese facendo il portantino per i turisti e così riusciamo a chiacchierare un po’. Ci dice che è stato capo villaggio per 16 anni, tutore di questo agglomerato di capanne che conta poco più di un centinaio di abitanti, molti dei quali parenti tra loro. Ci racconta che i rapporti con il vicinato sono ottimi: periodicamente si incontrano con le minoranze etniche dei villaggi vicini e i matrimoni tra tribù diverse non sono affatto una rarità. Ci racconta che ha sette figli, tre dei quali vivono qui nel villaggio, mentre uno se ne è scappato in America.
Parla e sorride, chiede se il cibo è abbastanza, se ci piace, se vogliamo del tè, poi si alza ed entra nella capanna. Sembra stanco e probabilmente lo è, visto che questo signore asciutto e dritto come un fuso sfiora gli ottant’anni.
Quando si ripresenta davanti a noi ha una camicia pulita addosso e un invito inatteso sulle labbra: vogliamo accompagnarlo al compleanno della nipote? Il piccolo Indiana Jones ha un sussulto di pura gioia: un compleanno Karen in famiglia sotto l’ala protettiva dell’ex chief del villaggio. Se esiste un onore più grande, in quel momento proprio non gli viene in mente.
C’è luna piena e avventurarsi tra il buio delle capanne è un gioco da ragazzi. L’aria odora di bruciato e spezie.
Saliamo nella casa della festeggiata e i sorrisi che ci accolgono sono così copiosi e generosi che per un momento penso che il compleanno sia il mio e che me lo sia scordato. Ci sediamo a terra unendoci al cerchio di persone che ascoltano attente un uomo. Legge la Bibbia, spiega Lugher. Sono in un villaggio sperduto nella Thailandia del nord e sto partecipando a una messa! Circola persino un bicchiere per gli spiccioli.
Per fortuna tutto è più veloce ed essenziale di una messa comune, potrebbe c’entrare il fatto che sono cristiani protestanti, ma soprattutto in ballo c’è un’altra cosa. Un compleanno da festeggiare e una meravigliosa torta burrosa e chimica del 7-Eleven che ci attende.
Il pastore, scopriamo, è uno dei figli di Lugher e padre della festeggiata. Il suo inglese è ancora migliore di quello del padre e ne approfittiamo per fare altre due chiacchiere. È prodigo di dettagli su questa religione piovuta un bel giorno dall’alto, che ha portato una chiesa, un dio e un bagaglio di regole nuove. Ascoltiamo attenti, ma qualcosa si agita nello stomaco e non ci metto molto a capire che è il piccolo Indiana Jones che si sta facendo inquieto. Lo capisco: non è di religione cristiana che vuole parlare.
Alla fine prende coraggio e chiede ciò che davvero gli sta a cuore. Gli chiede degli spiriti.
E il pastore di questo popolo, che un giorno se ne è stato a guardare mentre qualcuno dava una pennellata di monoteismo sul suo passato animista, si mostra perfetto figlio di suo padre: si fa timido e svia il discorso.
La serata è stata talmente densa e interessante che nemmeno il gallo che lo sveglia alle 3 e mezzo di notte fa cambiare idea al piccolo Indiana Jones. È stata una serata bellissima: il compleanno, le chiacchiere di persone lontane per origine e cultura riunite davanti al fuoco, la scena surreale di un cane che litiga con un granchio. Le stelle e la luna.
La notte non riesco a riposare bene, il materasso si rivela ancora più sottile di quanto sembrasse e la temperatura decisamente più bassa.
Ma poi la mattina, quando apro la porta della capanna, lì davanti c’è un sole debole e velato che mi aspetta, e montagne più suggerite che mostrate, e quell’odore acre nell’aria che fa saltare indietro nel tempo, e una mamma che fa il bagno a una bimba minuscola e bellissima dentro una tinozza, e una scimmia che si dondola da un albero appesa a una corda, e il sorriso di Lugher che ci segue fino al motorino, e poi oltre, attraverso l’entrata del villaggio e lungo la strada che ci riporta a Chiang Mai.
(1) Tribù di montagna che abitano le zone settentrionali di Thailandia, Myanmar e Laos. In Thailandia esistono 6 tribù principali, ognuna con sottotribù, cultura e lingua propria.
(2) I Karen sono un insieme di gruppi etnici birmani che vivono principalmente nello Stato Karen (Myanmar) e da diversi decenni anche in Thailandia, soprattutto nelle zone di confine con il Myanmar. I Karen devono la loro fama a uno dei loro tanti sottogruppi, i Padaung, noti anche come Long neck. Fin da bambine le donne Padaung (le cosiddette Donne giraffa) indossano anelli di ottone attorno al collo nell’apparente rispetto di canoni estetici tutti loro, anche se lo sfruttamento vergognoso dei tour operator che trasformano i villaggi in tristi zoo di avanspettacolo ha reso il confine tra scelta volontaria e costrizione per scopi pubblicitari davvero molto sottile.