Quando venerdì mattina, dopo una pedalata di alcuni chilometri attraverso gli effluvi sgraziati di Chiang Mai, vedo in lontananza il cartello dell’ufficio immigrazione, mi profondo in una serie di mentali pacche sulle spalle per 1) essere riuscita a trovare l’ufficio al primo colpo, 2) essere arrivata così di buon’ora; che dico: di ottima ora. Immaginate perciò la sorpresa quando mi accorgo che davanti agli uffici preposti si erge una vera e propria città in miniatura, con bivacchi, persone addormentate, venditori ambulanti di cibo e biglietti della lotteria. Penso: c’è un errore, non possono essere tutti in fila, questa è gente che vive qui!
Il tempo di avvicinarmi al banco delle informazioni e capisco che invece sì, accidenti, quell’aggrovigliamento di esseri sudati è davvero una fila e io sono arrivata clamorosamente in ritardo. Biglietti finiti. Per estendere il mio visto dovrò tornare lunedì mattina.
Che bello, però, quando basta un soffio per cambiare prospettiva e ricordare che dietro ogni apparente sfortuna si nasconde sempre un’occasione. Nemmeno il tempo di fare inversione di marcia e già penso che forse è un bene, forse non è così che devo rinnovare il visto. Forse devo andare in Birmania!
Esiste infatti un’alternativa per regolarizzarmi con l’immigrazione thai e allo stesso tempo passare un w-e diverso dal solito: andare a nord, passare il confine con il Myanmar (nome egualitario imposto dopo il colpo di stato del 1988 all’ex Birmania) e poi rientrare in Thailandia con il timbro di rinnovo sul passaporto.
È così che domenica mattina mi ritrovo su un bus diretto all’estremo nord del Paese, verso il punto oltre il quale non ci si può avventurare senza sentire parlare un’altra lingua, verso quella zona di frontiera di suggestiva memoria che la Thailandia spartisce con Myanmar e Laos e che è nota col nome di Triangolo d’oro.Sebbene in Thailandia la coltivazione d’oppio sia drasticamente scesa da quando più di 40 anni fa una serie di progetti reali promosse la trasformazione dei campi di oppio in orti giganti rigonfi di creature vegetali – forse più sane, probabilmente meno redditizie, indubbiamente meno ludiche – rinunciare a un nome così evocativo deve essere apparso come una pazzia a un paese che ama il denaro suo come se stesso. E infatti su questo nome i tour operator proliferano più o meno alla stessa velocità con cui muoiono le etnie delle montagne, che per secoli hanno visto nella coltivazione del papavero da oppio la propria principale fonte di reddito.
Ma naturalmente, come spesso accade, ciò che viene ammansito in un paese riemerge rinvigorito in un altro e il confinante Myanmar è attualmente il secondo produttore al mondo di oppio ed eroina dopo l’Afghanistan. Non solo. Il Myanmar è anche un paese imprigionato in un limbo strano e affascinante tra dittatura e regime democratico e in buona parte ancora inaccessibile al turismo. Insomma, la tentazione di dare una sbirciatina a questo affascinante paese è davvero irresistibile e non vi è alcun dubbio che il modo più adeguato per farlo sia quello di raggiungerlo in bus.
Perché l’autobus? Perché non puoi dire di essere stato veramente in Thailandia se non sei salito almeno una volta su uno degli sgangherati bus verdi che trasportano i locali e qualche sparuto occidentale su per i greppi del nord. Io li adoro. Con i loro volanti rattoppati, i finestrini e le porte aperte che creano un open space tra te e il burrone, infondono un senso di precarietà difficile da sperimentare altrove.
Ed è così che, dopo il quasi lusso del primo autobus, mi intrufolo contenta come una bambina che sale su una giostra tra i passeggeri pigiati all’inverosimile del bus che mi porterà a Mae Sai, al confine con il Myanmar.
Come spesso accade il confine è solo un ponte, molto breve in questo caso.
Lo attraverso a piedi lenta, facendomi spazio tra motorini, persone cariche di borse e alcuni occidentali che si trovano lì per il mio stesso motivo. Uscire dai confini ogni 90 giorni per rinnovare il visto è lo scotto che ogni espatriato paga per vivere in questo Paese. Molti passano il confine, mettono piede nel paese limitrofo, fanno una piroetta su se stessi e rientrano immediatamente in Thailandia. Io ho deciso invece di fermarmi una notte o due a Tachileik, la città dall’altra parte del ponte, perché in Myanmar non sono mai stata e se è vero che le città di confine sono tutte molto simili alla gemella speculare e affatto rappresentative della vera identità del paese, sempre di Myanmar si tratta e questo mi basta.
Il primo sentore che ho preso un granchio clamoroso (ah, la mia presunzione di donna navigata per la quale il mondo non conosce più segreti!) si svela non appena arrivo alla fine del ponte e svolto sulla via maestra. Mi bastano poche centinaia di metri e una trentina di minuti seduta nell’unico ristorante che trovo per rendermi conto che mi sono lasciata alle spalle un paese e me ne trovo di fronte un altro. Tutto sembra diverso:
– Nessuno parla inglese.
– Nessuno sorride. E quando lo fa sembra più una merce di scambio per una manciata di bath che un gesto di cuore.
– Il traffico scorre a destra (come in Italia, ma non come in Thailandia).
– Dentro il ristorante non ci sono donne sole. A parte un paio di prostitute. E me.
– Non si vedono occidentali per strada. Non ne vedrò nemmeno uno per tutte le 18 ore che trascorrerò qui.
Sono una sorta di fenomeno da baraccone che attira sguardi, commenti e risatine. Sono il diversivo di decine di ragazzi che sembrano non sapere come passare il tempo. Si giostrano tra me e il televisore, indecisi su cosa meriti più attenzione, se un’occidentale forse troppo scoperta o un film che scorre senza sonoro.
Seduta al mio tavolino simulo indifferenza e punto lo sguardo al fiume, questa stretta lingua di acqua densa su cui si specchiano gli edifici, i colori e le luci thailandesi. Ci fosse qualcuno affacciato alla guesthouse di fronte potrei afferrargli la mano, tanto sembra vicina.
Ed è mentre rifletto su come sia possibile che una manciata di metri sia sufficiente a trasformare un mondo in un altro come in un gioco di specchi, che arrivo a una conclusione incontrovertibile: o qui davanti a me si materializza all’istante un venditore d’oppio con i saldi di fine stagione o domani mattina alle prime luci dell’alba me ne torno a “casa”!