Finalmente ci siamo: ecco il paesaggio dei miei sogni.
La strada color mattone è dritta e interminabile e taglia in due una terra che sembra non incontrare acqua da secoli, la vedo ed è come se la toccassi – sabbiosa, dura come l’acciaio.
E fa un certo effetto scoprire che malgrado l’apparenza è una terra viva e generosa in cui trovano posto migliaia di eucalipti (che qui chiamano gum trees) e di cespugli di spinifex, palle di foglie appuntite come aghi che trasformano il suolo australiano in un campo minato.Il furgone macina chilometri e benzina, nessuno fiata, nessuno osa.
Dopo avere guidato per più di tre ore senza incontrare una casa e nessun rappresentante della specie umana mi sono meritata il posto d’onore, quello nel sedile dietro meravigliosamente reclinabile, meravigliosamente impreziosito dalla vicinanza al roof aperto che convoglia sulla mia pelle aria fresca, cielo e sole.
La parete vetrata è a un millimetro dal mio naso e dalla mia immaginazione, conto i colori che mi passano sotto agli occhi nella lenta marcia verso Coober Pedy, conto il grigio dell’argilla, il giallo dei piccoli batuffoli di vegetazione disseminati nelle crepe del terreno, il nero dei tronchi spogli e attorcigliati, l’azzurro degli occhi di chi mi siede a fianco, il bianco soffice e sottile dell’unica nuvola sospesa in cielo.
E conto i giorni che mi separano dalla mia vita di sempre, che adesso è solo un’altra vita, una delle tante possibili, una strada percorsa in un mondo monocromatico e uniforme, in questo momento lontano come è lontana la fine di questa strada che taglia il deserto.